14 Feb Chi è che comanda?
Era stata una lunga nottata.
Entrambi i bambini si erano svegliati più di una volta per via degli incubi e specialmente Harvey, che era ancora scosso dalla sera prima, ci aveva messo tantissimo tempo e tantissime lacrime prima di riuscire a riaddormentarsi.
Quindi, per permettere loro di recuperare tutto il sonno possibile, avevo deciso di rimandare la sveglia, nonostante l’appuntamento dal dentista incombesse alle 10.30 di quella mattina.
Alle 7.30 però, Nathan si svegliò.
«Buongiorno piccolino, come stai?».
«Mh» fece lui alzando le spalle, ancora molto intorpidito.
Intanto Harvey, che ci aveva sentito, aprì gli occhi mugugnando.
«Buongiorno Harvey.» Mi avvicinai per accarezzarlo.
«Mmmh.» (Verso infastidito). Mi scansò la mano, poi senza darsi neanche il tempo di capire chi era e dove si trovava, si fiondò nell’armadio dei giochi.
Come prima cosa versò a terra l’intero contenitore dei Lego.
«Pulcino, non c’è tanto tempo per giocare oggi. Ti ricordi? Abbiamo il dentista tra poco, perciò è meglio che cominciamo pian pianino a prepararci.»
«Statti zitta!»
«Dai Harvey, non mi parlare così, io ti sto trattando con gentilezza.»
«Ho detto statti zitta!» Mi urlò, già inferocito, il mio quattrenne esplosivo.
«Cominciamo bene!» pensai.
Probabilmente era già nervoso perchè aveva dormito poco e male, così, inserii il solito gettone di pazienza extra nell’apposito comparto del mio allenatissimo cervello.
«Va bene Harvey, facciamo così, ti lascio giocare 15 minuti ok? Dopo mi prometti di collaborare, così ci prepariamo e usciamo di casa in tempo?».
(Nessuna risposta). Harvey era concentrato con i suoi Lego. Intanto Nathan si era già diretto in bagno a lavarsi.
«Harvey?»
«Mmmmh» fece lui molto irritato. «Che vuol dire mmmh? Si o no?»
«Mmmmmmmmmhh» Mi guardò come se stesse per azzannarmi alla giugulare.
Realizzai che, se volevo almeno tentare “l’operazione dentista”, una crisi, quella mattina, non me la potevo proprio permettere. Quindi ripiegai subito in ritirata.
«Dai ok, ti lascio giocare tranquillo. Quindici minuti va bene? Bene.» (Nessuna risposta).
Decisi di approfittare della tregua momentanea per dedicare un pochino di attenzioni anche al fratello.
«Com’è andata la notte Nathan, sei poi riuscito a dormire bene?». Intanto raccoglievo da terra i vestiti e gli altri giochi rimasti in giro dalla sera prima, nel tentativo di limitare le possibili distrazioni.
«Non so mamma. Fatto brutto sogno, poi non lo ricordo.»
«Eh sì, lo so che hai fatto un brutto sogno, me lo vuoi raccontare?»
«Sì.» Acconsentì Nathan, poco abituato ad avere con me una conversazione che andasse oltre le mere informazioni di servizio.
«Io, c’era il Gormiti capo che sparava e c’è la paura. Ma poi cadevo sotto e la grande mano faceva così e mi schiacciava. È questo, così! Capito mamma?»
«Mmmh, sì, più o meno.» Non era sempre chiaro cosa diceva Nathan. La scuola dell’infanzia stava aiutando parecchio, ma il suo linguaggio era ancora molto indietro.
Poi Harvey cominciò a lanciare i Lego contro l’armadio e dovetti correre a fare la mia parte.
«Harvey no! Che succede? Perchè lanci i Lego?». Sospettai che, oltre alla nottata movimentata, stesse ancora metabolizzando la tensione del giorno prima.
Il pomeriggio precedente, infatti, sia lui che Nathan erano tornati a casa molto stanchi e nervosi, dopo la scuola. I litigi tra fratelli non si erano certo fatti attendere e anche la cena era stata tutt’altro che un piacevole momento di ristoro.
Alla penosa lotta per farli mangiare, seguì poi una serata al limite dello sfiancamento, dove nessuno riusciva ad ascoltare le mie direzioni e tutti urlavano rinfacciandosi la qualunque.
Non riuscii, in nessun modo, a trovare lo spazio per il racconto di una storia o, volendo barare un pochettino, per accendere un puntata di Peppa Pig che distogliesse il focus, per qualche minuto, in modo da alleggerire un minimo l’atmosfera.
Nulla, non c’era tregua. Ancora un po’e l’iPad faceva una pessima fine, insieme con Peppa Pig, Pocoyo e tutti gli altri miei apprezzati collaboratori.
Quando poi, finalmente, dopo lunghe peripezie riuscimmo a prepararci per andare a dormire, Harvey decise di giocarsi la sua carta peggiore: la tortura psicologica del “sì-no-sì-no”.
Da me altamente temuto, il “sì-no-sì-no” stava ad Harvey, come la bomba atomica sta alle grandi potenze militari della Terra. Era l’ultima spiaggia: l’arma devastante per tutti (anche per lui), ma dall’infallibile efficacia.
«Basta Harvey, basta, calmati. Restituisci la macchinina di Nathan e mettiti nel letto. No. Non serve a niente fare così, hai solo bisogno di dormire. Coraggio, già non abbiamo lavato i denti. Harvey no, così si rompe e poi non la finiamo più. Dai ti faccio un po’ di coccole, ti va?»
«Sì». Disse. E a me si gelò il sangue.
Un sì di Harvey, quando era così sconvolto, mi preoccupava molto di più di tutti i suoi no.
La macchinina volò presto in direzione della mia faccia. La schivai. Cadde a terra senza rompersi, per fortuna. Senza scatenare l’ira pure del fratello.
Nathan si stava trattenendo, come sempre. Era già nel suo letto e, come ogni volta che Harvey superava il limite, lui “evitava di crearmi altri problemi”.
Troppo grande, troppo responsabile, troppo presto. Sarebbero giustamente emersi anche i suoi, di problemi, più avanti, ma ne parlerò altrove.
Harvey rise sfottendomi. Io mi feci il segno della croce e mi avvicinai per coccolarlo.
Giusto un paio di carezze sulla testa e poi lui scostò la mia mano e cominciò a lamentarsi. Eccoci.
«Noo, le voglio sulla testa!»
«Te le sto facendo sulla testa. Guarda, va bene così?»
«Aaah!». Mi schiaffeggiò la mano. «Ho detto che le voglio sulla testa! Non capisci?»
«Harvey, non cominciamo. Ti stavo accarezzando la testa, come mi hai chiesto. Cosa c’è che non va?».
In realtà sapevo benissimo cosa c’era che non andava e di sicuro non era il modo in cui lo accarezzavo.
«Mamma ho sonno, voglio dormire. Mi fai le coccole sulla testa?»
«Ci sto provando Harvey, potresti lasciarmelo fare?».
«No.»
«Eh, ma allora come facciamo?»
«Dai mamma, sono stanco! Senza coccole non mi addormento.»
«Ok Harvey, va bene… » Mi avvicinai e lui subito sgusció via, prendendo a scalciare e gridare per tenermi lontana.
Nathan a quel punto non ce la faceva proprio più. «Harvey basta! Basta stai zitto! Anche io voglio fare nanna, basta!».
Harvey noncurante continuava senza tregua: «Whaaaaaaaah!!»
Va così, a quanto pare. Quando sei appena nato e fa già tutto schifo. Sicuramente andava così per Harvey.
Questo è quello che succede quando non hai neanche fatto in tempo a imparare a dire “papà” e già tuo papà non c’è più. Quando stai male sempre, perchè nemmeno il tuo corpo, ha saputo accoglierti a questo mondo con un po’ di grazia.
Perchè dovresti essere gentile? Perchè mai dovresti collaborare? Con chi?
Ecco cosa c’era che non andava.
«Mamma mandalo via! Io non posso più con questo fratello!». Gridò Nathan sforzando le corde vocali per sovrastare i decibel del più piccolo.
Spiacente Nathan, non si può fare. Pensai tra me e me. Nessuno verrà mai mandato via da me, certo che no. E poi, direi che ne è bastato uno, di abbandono.
A parlare civilmente non mi sentiva più nessuno. Persi la calma, alzai la voce: «Adesso basta! Silenzio tutti e due!».
Nathan si zittì subito. Si coprì la testa col cuscino e pianse soffocando i singhiozzi. Harvey invece, col cavolo che la smise per un secondo. Alzò il volume ancora di più: «Aaaah le coccole! Perchè non vuoi farmi le coccole mamma?? Whaaaah!» Piangeva anche lui. Non sapevo più che fare.
Avrei voluto consolare Nathan. Almeno lui si sarebbe lasciato avvicinare, credo, ma se mi fossi spostata da qua, Harvey avrebbe dato di matto ancora di più e Nathan si sarebbe sentito ancora peggio. Perciò mi rassegnai a lasciar correre, mio malgrado.
Alla fine mi trascinai in bagno e Harvey mi seguì, senza mai smettere di urlare, aggrappato alle mie gambe.
Volevo spostare la battaglia il più lontano possibile da Nathan. Speravo di lasciargli il tempo per addormentarsi e almeno su questo ebbi successo.
Il resto della vicenda si può riassumere come segue.
Un’altra infinita mezz’ora di insensate trattative, urlate e piagnucolate, senza arrivare ad una risoluzione di nessun tipo.
Un altro bruttissimo mal di testa, anzi due: uno per me e uno per Harvey.
La sua incessante richiesta di qualcosa da parte mia, che fosse una carezza sulla testa o un abbraccio o la risposta ad una domanda, sempre seguita dal rifiuto dei miei sforzi per accontentalo e poi, una nuova richiesta e un nuovo rifiuto, avanti così, all’infinito.
Sì, no, sì, no… Finché anche tutte le sue risorse si esaurirono.
Arrivato oltre un certo punto, le forze non gli bastavano più per mettere in fila le parole, quindi si limitò a mugugnare, per un po’, fino ad accasciarsi ai miei piedi, addormentandosi di colpo.
Sul pavimento, ancora aggrappato alle mie gambe, le batterie del tutto scariche di Harvey, lo costrinsero ad accettare l’amara verità di appartenere anche lui al genere umano.
Sì, persino lui, l’incrollabile Harvey, volente o nolente, aveva bisogno di sonno.
Il mattino dopo eravamo tutti stanchi.
«Coraggio ragazzi, anche oggi ce la possiamo fare, indossiamo le giacche che il dentista ci attende!» Dichiarai un po’ affaticata, dopo una nottata di incubi e risvegli impanicati.
Nathan protestò: «Ma, mamma, io ho già messo jacket.»
«Lo so, lo so Nath, lo dicevo più per Harvey.»
«Eh, allora dillo a Harvey! Tu sgridi me e io non ho fatto nulla!”
«Ma sì Nathan, era per dire. Guarda che io non ho sgridato proprio nessuno. Vi stavo solo gentilmente chiedendo di mettere la giacca perchè dobbiamo uscire e fa freddo.»
«Ma io l’ho già messo, uffaaa!!» Reagì Nathan, pestando a terra i piedi frustrato, prima di tirare fuori qualche lacrima di disappunto.
«Oh Nathan, ma stai tranquillo, non ce l’ho con te, non ce l’ho con nessuno dai! Adesso andiamo, sù che si fa tardi. Harvey, per favore, puoi interrompere quello che stai facendo e indossare la tua giacca?».
«No.»
E ti pareva.
«Dai patato, come facciamo? Lo sai che quella carie è brutta, se non la togliamo finisce che ti farà molto male. Ti ricordi com’è andata l’ultima volta?».
«Non mi interessa.» Rispose deciso, senza nemmeno guardarmi.
Sospirai, e mi abbassai al suo livello. «Cos’è che stai facendo? Costruisci una casetta? Che carina, posso vederla?».
«No.»
Al chè Nathan si irritò ulteriormente, dato il mio tergiversare con Harvey, quando avevo appena detto che c’era fretta.
«Mamma non siamo in ritardo? Io ho caldo.»
«Un attimo Nathan.»
«Harvey posso fare qualcosa per aiutarti ad uscire di casa? So che sei molto concentrato con la tua casetta, ma è importante che andiamo dal dentista, adesso che non hai la febbre. Se poi ti ammali di nuovo rischia che la carie si allarghi e poi, oltre alla febbre, avrai male in bocca. Non vogliamo questo vero?».
«Lasciami stare! Io non parlo più!»
«Cosa c’è che non ti piace? Hai paura del dentista? Magari possiamo andare a prendere un bel gelato dopo, così… »
Harvey non mi lasciò terminare la frase, corse in bagno e si chiuse dentro a chiave.
«Oh nooo, che testa! ho dimenticato di togliere la chiave! Ma perchè??».
Nathan stava per esplodere: «Mamma basta, io sudo!».
Ed era lì, negli occhioni bagnati di chi viene sempre messo da parte, che potevi scorgere la forma liquida dell’ingiustizia. Harvey e il suo malumore, finivano, ogni volta, per prendersi la priorità.
«Togli la giacca Nath, mi sa che ne avremo per un po’.»
Passò una mezz’ora abbondante. Poco da fare, fummo costretti ad aspettare che Harvey si prendesse il suo tempo per calmarsi, nella speranza che prima o poi saremmo riusciti ad avviarci.
Poi, a un certo punto, il latitante si stufò della sua reclusione auto-imposta e uscì finalmente dal bagno.
Mentre lo osservavamo di soppiatto, senza dire niente, Harvey si infilò da solo la giacca e le scarpe ed uscì sul pianerottolo con fare imbronciato.
Presto! Segnalò subito la mia sirena di emergenza interna. Prego, sfruttare immediatamente una tale occasione!
In una manciata di secondi eravamo fuori anche noi.
«Io dal dentista non ci vado!». Dichiarò preventivo il nanerottolo, mentre attraversava la soglia del portone del palazzo.
Ah, ecco. Già finita l’occasione imperdibile.
Il mito di un’illusione troppo bella per essere vera si sgonfiò in un attimo, con irriverenza, come una pancia che, in pubblico, si libera da una scoreggia.
D’altronde hai visto mai? Harvey che collabora? Tsè, un miraggio sarebbe più reale.
«Come non ci vai? Ma se siamo usciti?»
«Andiamo al parco.» Impose Harvey.
Con quel tono sembrava voler dire: “Chi è che comanda qui?”.
Non lo disse, ma lo aggiungo io, perchè in effetti era vero. In quegli anni, l’umore instabile di Harvey si era proclamato dittatore.
«No patato mio bello, si va dal dentista adesso, altrimenti non ce la facciamo in tempo. Dopo, volentieri, andiamo al parco.» Dichiarai categorica, gelosa del ruolo che Harvey minacciava di usurparmi, ogni volta che apriva bocca.
«No!» Disse, e scattò di corsa in strada, in direzione opposta a quella della fermata del tram dove eravamo diretti.
Sebbene non fosse andato in mezzo alla strada, comunque non era nemmeno sul marciapiede. Questa volta non potevo lasciargli il suo spazio e aspettare che si calmasse, non avevo scelta.
Gli corsi dietro e lo afferrai per un braccio. Mentre lui strattonava arrabbiato per liberarsi io feci il possibile per trattenere lo spavento e la voglia di urlargli di non fare mai più una cosa del genere.
Non mi riuscì del tutto. Si vedeva che non ne potevo più.
«Harvey hai fatto una cosa molto pericolosa! Lo vedi che di qua passano anche le macchine? Devi stare sempre sul marciapiede! Capito??»
«Lasciamiiii! Lasciami! Non mi interessa!»
«Come non ti interessa? E se ti prendono sotto?? Io ti lascio, ma tu fammi il favore di starmi vicino, sul marciapiede!»
Allentai la presa. Harvey ruggendo si scrollò le mie mani di dosso. L’espressione violenta con cui mi guardava comunicava qualcosa sulla linea di: “se ti azzardi a toccarmi di nuovo ti stacco le dita a morsi!”.
Non lo toccai. Mi sarei sentita più tranquilla avessi potuto tenerlo per mano, ma non era cosa. Mi limitai a posizionarmi alla sua sinistra, in modo da essere io quella esposta al ciglio della strada.
La distanza che ci serviva percorrere per raggiungere la fermata del tram era davvero minima. Giusto lo spazio di due o tre edifici e poi un breve attraversamento pedonale.
Ci fermammo accigliati e in silenzio, quasi in preghiera, ad aspettare che il semaforo a lato delle strisce ci desse il suo lasciapassare.
Poi Harvey decise nuovamente di marcare il territorio. “Aspetta un attimo, dov’è che vuoi andare? Direi che te lo puoi scordare, chi è che comanda qui?!” Probabilmente, davvero gli passava questo per la testa, e intendeva dimostrarlo.
Oppure non era proprio così?
Rideva sfidante, ma magari, non mi voleva sfidare. Forse era solo sopraffatto dal fastidio di non averla spuntata questa volta. Forse, dentro di sè, anche lui non si stava affatto divertendo. Si dava il caso però, che recitasse molto bene.
Correva. Questa volta sul marciapiede. Potevo fidarmi? No.
Mollai il più grande in balia di se stesso, e corsi subito dietro a quell’altro pazzo. Tanto Nathan ci era abituato, tanto di lui non dovevo mai preoccuparmi: non si sarebbe mosso.
“Giudizioso” dovevo chiamarlo, non Nathan. Gli sarebbe calzato bene.
Harvey non accennava a volersi fermare, ma io avevo le gambe più lunghe. Lo raggiunsi e lo acchiappai per la giacca. Lui si divincolò sfilandosela via e poi arrancò ancora qualche scoordinato balzo in avanti, sempre ridacchiando.
Lo ri-acciuffai. Non ci vedevo più. «Harvey, porca miseria! La vogliamo finire??! Cosa credi di fare? Adesso ti porto in braccio e andiamo dove dico io!»
Sì, avevo perso il controllo. Non avevo più le energie per essere gentile. Tanto, comunque, non serviva a niente.
Lo costrinsi con la forza tra le mie braccia e lo sollevai. Intrappolai tutti e quattro i suoi arti nella morsa esasperata che gli avrebbe impedito di tentare altri colpi di testa.
Non era più una questione di diplomazia, adesso era diventata una questione di muscoli e i miei, soprattutto quelli delle braccia, erano ben più allenati dei suoi.
Le sue ribelli energie di fuggitivo a tutti i costi non bastarono a vincere il braccio di ferro con i miei bicipiti d’acciaio. Tutte le notti passate a tenerlo in braccio, ogni volta che si ammalava, se non altro, avevano avuto un effetto collaterale che ora mi tornava utile.
Ero determinata a dimostrare la mia autorità, ma un quattrenne in piena crisi di ribellione non sono pochi kili da traghettare. Peggio ancora se li metti in groppa ad una singola, fracassata, spina dorsale.
Così arrancavo dolente, sudando parecchio. Tutta la mia concentrazione volta a non perdere l’equilibrio, mentre mio figlio buttava all’indietro la sua testa nel tentativo di sbilanciarmi.
Poi, per tentare il tutto per tutto, lui, che non poteva più opporsi con altre parti del suo corpo optò per le armi chimiche.
Caricò dentro alla sua bocca un proiettile esplosivo, fatto di tutta la saliva che riuscì a raccogliere e poi lo sparò violentemente fuori, puntando allo spazio tra i miei occhi.
Mancò la mia faccia, ma prese in pieno i miei nervi.
«Harvey adesso te le prendi!» Scoppiai urlando, accecata dalla rabbia.
Immediatamente dopo arrivò il rimorso. Le minacce no! Non importa quanto sei disperata: le minacce non devono esistere! Cercavo di ricordarmi, in conflitto con me stessa.
Anche Nathan che si era avvicinato a noi, mi sgridò: « Mamma no! Non puoi picchiare Harvey! Lascialo andare, gli stai facendo male!»
Era protettivo. Questa volta nei confronti del fratello, ma in generale, verso chiunque soffrisse. Tra me e Harvey si trovava spesso indeciso su chi fosse la vittima e chi il carnefice, così faceva un po’ a turno, immolandosi ad angelo custode di entrambi, e lasciando spesso indietro se stesso.
«Va bene, scusa, non volevo dirlo. Non picchio nessuno ok? Non faccio male a nessuno. Però Harvey adesso basta! Un po’ di collaborazione!»
«Tu fammi scendere! Io non collaboro se non mi fai scendere!»
«E se ti faccio scendere, invece collabori?»
«Nooooo!!»
«Te ne stai dove sei allora và! Possibile che non ti rendi conto di quanti casini provochi facendo così? Dobbiamo sempre tutti piegarci al volere di Harvey vero? Altrimenti scoppia il mondo! Ma guarda te!»
Mi stavo detestando per essere ormai incapace di domare le mie emozioni. Sapevo che, anche solo a parole, si possono scavare solchi profondi, che impiegano un tempo infinito per rimarginarsi. Lo sapevo, ma a volte non riuscivo ad impedirmi di rispondere al fuoco.
«Mamma smettila adesso!» Si intromise Nathan «Così fai come lui! Dici non urlare e poi urli tu! Dici non fare il cattivo e poi sei cattiva tu! Io non posso più così! Basta litigare voi due!»
Aveva ragione, diceva cose mature, cose serie. Ci sarebbe stato da dargli ascolto.
Dall’esterno invece, la scena risultava tutt’altro che seria. Era un quadretto poco credibile, tragi-comico direi.
L’adulto (o supposto tale) che barcolla, ostaggio della scimmia scatenata che porta avvinghiata addosso. Intanto l’altro ammaestrato, divenuto ammaestratore giudica la pochezza del suo operato, dall’alto del suo metro e uno sputo.
Povera me. Come fanno gli altri? Come si fa a fare i genitori senza vacillare, sempre sull’orlo dell’esaurimento nervoso? Non ne avevo idea. Speravo di capirlo un giorno.
Eravamo alla pensilina. Quasi in salvo.
Nathan mi intimava di far scendere Harvey. Io rispondevo che l’avrei fatto una volta dentro al tram.
C’era gente intorno a noi e Harvey ragliava come un ciuchino posseduto dal demonio.
Non mi importava: sarei salita su quel mezzo, fosse anche stata l’ultima cosa che facevo! E poi ero abituata a far brutte figure in giro con lui, succedeva di continuo.
A quel punto però, me ne tirò fuori una, che male così non l’aveva mai fatto. E lì mi mise davvero al muro.
«Aiutooo! Qualcuno mi aiutiii voglio scendere! Aiutatemi questa non è mia mamma!! Buuh sigh, sob!». Si rivolse agli altri che aspettavano il tram. «Fammi scendere, tu non sei mia mamma! Sei brutta, bruttaaa!!».
Cazzo Harvey, se da grande non fai l’attore tu, voglio proprio vedere cos’altro potrebbe riuscirti meglio!
Tutti gli sguardi su di me, il mio sudore che colava giù lungo il collo. Non sapevo come togliermi d’impaccio e il colorito marroncino del bimbo, affianco alla mia pelle bianco latte, non dava certo una mano a scagionarmi.
Il tram si avvicinava. Ancora qualche secondo e avrei potuto farlo scendere, evitando che qualcuno, nel dubbio, chiamasse la polizia.
Si aprirono le porte. Entrammo. Harvey sbraitava. «Un secondo Harvey, adesso ti metto giù.»
Le porte si richiusero. La gente si accomodò ai propri posti al cinema. Tutti curiosi di sapere come sarebbe andato a finire il film.
Deposi a terra il sequestrato, mi sedetti e mi preparai a ricevere la mia dose di calci e pugni. D’altronde la gravità dell’offesa che Harvey sentiva di aver subito, andava in qualche modo compensata.
Si aggrappò alla stoffa che mi copriva i fianchi e si piegò in avanti appoggiando la testa sulle mie gambe. Con le sue cercava di pestarmi i piedi e poi di arrampicarsi, forse voleva mordermi. Non avevo capito bene cosa avesse intenzione di fare, ma faceva un gran baccano.
«Harvey no! Non fare male a mamma! Adesso ti ha messo giù, smettila!» Si pronunciò di nuovo Nathan. Era il mio turno di venir difesa.
Io, dal canto mio, un po’ gli chiedevo di smetterla e un po’ lo lasciavo fare. Speravo che si sfogasse.
Voglio proprio capire come faremo dal dentista, se continua così. Sta a vedere che non riescono a curargli la carie, servirebbe come minimo l’anestesia totale!
Poi tra un’acrobazia e l’altra il piccolino finì per appoggiare la fronte sopra alla mia mano.
«Oh merda! Harvey stai fermo un secondo, fammi sentire.»
Non volevo crederci, ma le mie mani ormai non sbagliano più. Era caldo. «Mioddio Harvey, hai la febbre!».
Prenotai la prossima fermata e così facendo nebulizzai qualsiasi traccia dell’esistenza del dentista, dalla faccia della Terra.
Ecco perché era così fuori di sé, maledizione avrei dovuto capirlo! É passato niente dall’ultima volta, possibile che sia già di nuovo ora?
Finalmente validato nel suo sconforto, Harvey si sciolse in un diluvio di singhiozzi. Per un labile momento mise da parte quella sua minacciosa maschera da leone, tanto da lasciarci scorgere le tenere sembianze della sua sconfinata vulnerabilità.
Poi, insieme, scendemmo da una carrozza che forse un po’ ci aveva sperato nel lieto fine. Li lasciammo delusi.
Duemila lacrime caddero sull’unico ring dove la ferocia del campione nulla poteva contro il suo invisibile avversario batterico.
Duemila scuse gocciolarono tardive, fuori dalle mie labbra. Una pioggerellina troppo leggera per lavare la coscienza, che sentivo così dannatamente sporca.
Ci fermammo in farmacia. Mentre acquistavo l’ennesima pesantissima confezione di Tachipirina, il senso di inadeguatezza si espandeva dentro di me come catrame nell’oceano.
Sconfitta, impotente, sbagliata. Mi giudicavo severamente.
Anche e soprattutto stanca: una gigantesca macchia nera sull’anima stava oscurando le ultime resilienti rimanenze delle mie energie.
Una macchia incancellabile. Come la colpa che sentivo tatuata addosso, per aver fatto le scelte sbagliate, quelle che hanno poi portato a tutto questo.
Una macchia immensa. Come quell’insopportabile distanza che il mio cuore percepiva ogni volta allargarsi: la distanza che si era insinuata tra noi due e che mi impediva di avvicinarmi per stemperare la sua sofferenza.
Mi impediva di presenziare al suo fianco, di esserci per davvero, per aiutare lui, Harvey: il mio intrattabile quanto fragile bambino.
leggi il seguito: “Nessuno comanda, si cresce insieme”