10 Ago Cicatrici
Il 2016 si è concluso sbaragliando la concorrenza e aggiudicandosi a pieni voti il titolo di “anno peggiore della mia vita”. Spero che se lo tenga per sempre, non ho voglia di rivedere le classifiche in futuro.
Così come è arrivato, ci ha scaricato addosso la sua tempesta e ha continuato ad infierire su di noi mese dopo mese.
Sono passati anni da allora, stiamo tutti infinitamente meglio, ma restano le cicatrici.
Harvey aveva appena sei mesi quando suo papà ed io decidemmo di separarci.
Ne discutemmo a lungo, montammo e smontammo mille castelli di compromessi e di conseguenze per poi arrenderci davanti all’evidenza che la nostra relazione non stava più in piedi e da qui in poi le nostre strade si sarebbero divise.
Non è una decisione che si prende alla leggera, specialmente con due bambini così piccoli al seguito. Ma aspettare ha poco senso e più i bimbi crescono peggio diventa il distacco.
Così presi un biglietto aereo per tre persone. Sarei tornata indietro a sistemare tutto ciò che avevo da sistemare, ma al momento volevo solo rifugiarmi tra le braccia di mia mamma. Ogni parte di me chiedeva di tornare a casa per mettere il cuore e la testa a posto.
E poi, ehi, mia sorella, in Italia, stava portando a termine la sua gravidanza. Volevo starle vicina, per quanto mi fosse possibile, come lei aveva fatto con me quando aspettavo Nathan.
Un mese prima di partire Harvey aveva preso la varicella, in una forma orribile che ci aveva messo davvero tanto a passare.
Febbre altissima. Non un centimetro del suo corpicino era scampato all’attacco di un esercito spietato di sfoghi pruriginosi.
Mettici in cima la dermatite atopica che l’ha sempre tormentato fin dai primi giorni e potrai intuire con quanto piacere abbiamo soggiornato per due settimane all’inferno.
Una volta sconfitto il mostro, a pochi giorni dalla partenza, ci aspettava ancora al varco lo stramaledettissimo vaccino.
Non ho troppi rimpianti nella mia vita, ma questo sì.
Darei qualsiasi cosa per poter tornare indietro a quel giorno. Mi siederei pazientemente nello studio medico. Ascolterei lo stupido dottore dirci che ormai Harvey si era completamente ripreso dalla varicella e potevamo senza dubbio procedere con il vaccino contro lo pneumococco.
Poi, giuro, partirebbe uno di quegli schiaffi che ho riservato davvero a pochissimi eletti: la guancia rossa, dolente, con le dita stampate e l’espressione sconvolta dell’infermiera senza un’idea di cosa diavolo mi sia saltato in mente.
Purtroppo non si può riavvolgere la storia, ma voglio almeno immaginarlo: che soddisfazione!
Comunque, come dicevo, ero finalmente tornata in Italia, dalla mia famiglia, ma qualcosa non andava.
I bambini, soprattutto Harvey, erano molto nervosi, litigavano continuamente. Si dormiva poco e male, ma non ci davo peso perché pensavo fosse normale: il cambiamento non è troppo semplice da metabolizzare a quell’età.
Poi ritornò la febbre. Purtroppo a giorni alterni, altrimenti non avremmo aspettato così tanto prima di precipitarci in ospedale.
I primi due o tre giorni pensammo fosse influenza. Poi passò.
Credo che il mio secondogenito sia sceso su questa Terra con un bagaglio piuttosto ingombrante di Karma da smaltire perchè, combinazione, in quei giorni non uno, ma ben tre dentini stavano tagliando le sue gengive. Il che giustificava il ritorno della febbre e questa volta durò un po’ di più. Poi passò.
All’arrivo della seconda influenza cominciammo ad insospettirci e di martedì lo portammo in guardia medica per una visita: «Tutto normale. Se però giovedì ha ancora la febbre portatelo a fare dei controlli in ospedale.»
Fortunatamente mia madrina è infermiera e quando mercoledì la chiamai nel panico perchè la febbre aveva raggiunto i 40.6 e non scendeva nemmeno con la tachipirina, mi disse: «Corri.»
Primavera. Tuttavia fuori c’era la bufera di neve. Sembra che me lo stia inventando o che stia esagerando, ma non è questo il caso.
Mio papà alla guida faceva il possibile, ma le ruote dell’auto, nonostante le catene, andavano decisamente troppo piano.
Harvey non piangeva nemmeno più e tremava. Tremavo anche io.
Avvolsi il piccolo stretto stretto in una grossa coperta di lana ed eravamo fuori.
Camminare era una lotta contro il vento fortissimo, su e giù nel parcheggio con le scarpe traboccanti d’acqua. Non si vedeva niente, faticammo a trovare l’entrata del pronto soccorso.
Fradici, ci ammisero in pediatria.
Ci sorprendemmo a ringraziare il cielo per la stessa bufera che avevamo maledetto fino ad un minuto prima: la sala d’attesa era deserta.
C’era solo una persona nella stanza del dottore prima di noi e dalle urla della bambina dovevano essere messi male anche loro.
Prelevarono del sangue ad Harvey: i risultati sarebbero arrivati un’ora dopo. Un’ora molto lunga.
Mio papà mi aiutava a distrarmi raccontandomi di quando era andato a pescare da piccolo con i suoi fratelli ed era stato sorpreso da una bufera di neve. Ero troppo agitata per seguire il racconto, ma apprezzavo la sua vicinanza.
Poi arrivò il verdetto: un’infezione da pneumococco era partita da un organo non identificato e si era allargata cosi tanto che adesso i batteri erano in circolo nel sangue e stavano infettando l’intero organismo.
Era un inizio di sepsi: Harvey era in pericolo di vita.
Sbiancai e prontamente mi rassicurarono: eravamo arrivati in tempo, ce l’avremmo fatta, ma bisognava correre subito ai ripari.
Ci ricoverarono immediatamente. Mio papa’ non poteva restare. Gli chiesero di portare dei cambi per me e per il bambino: saremmo rimasti qui per qualche giorno, non sapevamo quanti.
Ci fecero l’impegnativa per fare i raggi x. Volevano capire se l’infezione era partita dai polmoni.
Intanto il dottore tirò fuori uno di quei siringoni che credevo esistessero solo nei cartoni animati. Era il Rocefin: l’antibiotico più potente e più a largo raggio a disposizione. Il primo di una lunga lista di antibiotici che avrei imparato a riconoscere in futuro.
Osservai l’ago trafiggere la coscia di mio figlio, mentre lui cercava di dimenarsi bloccato da me e dall’infermiera. «Ha ancora le forze di reagire.» Commentò il dottore: «È un buon segno.»
Bisognava attaccarlo alla flebo. Lo bucarono di nuovo, ma non riuscivano a trovare la vena. Ritentarono. Niente. Provarono sull’altro braccio, poi sulle mani, sui piedi e sulle gambe.
Aveva le vene fragili a causa della febbre alta e prolungata, non si riusciva ad infilare il tubicino di plastica. Poi chiamarono un’altra infermiera più attempata e più esperta e prima di ricominciare con la tortura le chiesi di allattare il piccolo per calmarlo.
Con Harvey avevamo cominciato presto lo svezzamento. A quattro mesi era già incuriosito dagli omogenizzati che mangiava il fratello e a sei mesi cominciavano a piacergli sul serio.
Dalla varicella in poi, invece, aveva perso ogni appetito, ma al latte materno non diceva mai di no, anzi, ne prendeva più di prima, proprio perché, molto più che il ciuccio, l’allattamento lo calmava.
Quante notti insonni passate seduti sul divano; Harvey attaccato al seno per ore e ore, nella speranza che si addormentasse.
Le ultime notti prima dell’ospedale non bastava nemmeno così: dovevo allattarlo in piedi, mentre camminavo. Quando finalmente si addormentava, se mi sedevo un minuto, anche senza staccarlo dal seno, si svegliava. Non c’era verso di dormire, perchè sentiva il dolore. Chissà quanto soffriva e io non lo sapevo. Credevo fossero i dentini.
I miei avevano provato a darmi il cambio di notte, ma Harvey non voleva stare con nessuno tranne che me.
Una notte la stanchezza ebbe la meglio addirittura sull’istinto materno. Abbandonai il piccolo urlante nel suo lettino e svenni per due ore.
Quando mi ripresi mi sentivo terribilmente in colpa e mi giurai che non sarebbe mai più accaduto.
Ad ogni modo, tornando alla nostra disavventura in ospedale, anche questa volta mio figlio riuscì a calmarsi grazie all’allattamento.
I medici, sorpresi, mi chiesero di continuare a nutrirlo mentre lo bucavano sul lettino e si rivelò un ottima idea.
Mentre io mi spaccavo la schiena in una posizione assurda, il piccolino chiudeva gli occhi e si attaccava con tutte le sue forze al mio seno, ma adesso si dimenava molto meno.
Mezz’ora e venti buchi dopo avevamo finalmente la flebo.
Gli arti di Harvey erano ricoperti di lividi, mi spezzava il cuore vederlo in quello stato.
Per finire in bellezza decisero di steccare il braccino, onde evitare che muovendolo si rompesse la vena.

Ero sconvolta, e stanchissima per le mille notti insonni che avevano preceduto il precipitare della situazione, ma fino a quel momento l’adrenalina mi aveva tenuta al mio posto.
Poi qualcuno mi chiese l’età piccolo. «Sette mesi.» Risposi.
Nella mia testa si formò un pensiero: solo sette mesi e gli tocca vivere tutto questo.
In quel momento i miei nervi cedettero e una pioggia di lacrime e singhiozzi cominciarono a cadere dal mio volto copiosi come la neve fuori.
Seguirono 20 giorni di prigionia in ospedale.
Dalle analisi risultò che l’infezione era partita dall’orecchio sinistro e che la battaglia era stata devastante.
La scritta neutrofili: 0/mmc sul foglio delle analisi faceva deglutire anche il più vissuto dei dottori. Non un singolo globulo bianco era sopravvissuto e adesso Harvey viaggiava scoperto contro l’attacco di qualsiasi virus o battere, al pari di un malato di HIV nel suo stato terminale.
Ci spostarono nel reparto di isolamento.
Io e Harvey, quattro mura e i filtri per l’aria alle finestre. Non potevamo uscire, non potevamo ricevere visite, i dottori indossavano la mascherina per entrare.
Mi mancava tantissimo Nathan, non avevo mai passato più di 24 ore lontana da lui. Provai a chiamarlo su Skype dal cellulare, ma i nonni mi raccontarono che al seguito della chiamata il piccolo aveva pianto per ore chiedendo di me, così, per non turbarlo, non chiamai più.
Ogni due ore un’iniezione o una somministrazione orale di antibiotici o Tachipirina o fermenti lattici o antifungini, anche di notte.
Harvey non ne voleva sapere di trangugiare tutte quelle medicine.
All’inizio usavo il ciuccio per fargli aprire la bocca e spruzzare a tradimento l’antibiotico con una siringa senza ago, ma il piccolo era sveglio e ci mise ben poco a capire il trucco. Da un giorno all’altro rifiutò il ciuccio e fine della storia.
Imparai a sedermi su di lui senza fargli male, la sua testa bloccata in mezzo alle mie ginocchia, le sue braccia crocifisse tra le mie gambe e il pavimento, tre dita tra le mandibole e la siringa carica nell’altra mano.
Otto sessioni di lavaggi nasali al giorno. Tanto sgradevoli quanto indispensabili: bisognava fare di tutto per evitare che il muco si infettasse.
Le vie aeree intasate rendevano l’allattamento difficile, il che a sua volta allungava di molto il tempo che ci mettevo ad addormentare Harvey tra un turno di medicine e il seguente.
Ogni sei ore si misurava la febbre. Una volta al giorno veniva pesato. Cinque volte al giorno la flebo suonava perchè finiva il liquido e bisognava svegliarsi, chiamare l’infermiera e sostituirlo.
Nel corso della degenza, a causa del sistema immunitario insufficiente, nonostante l’isolamento, Harvey si prese altre 3 infezioni e 4 gastroenteriti.
Vomitava e quando vomitava l’antibiotico erano casini.
Ogni notte il piccolino si svuotava e una decina di pannolini si riempivano di questa sostanza verde gelatinosa con un odore acido che resterà per sempre scolpito nella mia memoria.
Era l’antibiotico a rendere acide le feci e questo aveva provocato un’ irritazione alle zone intime così feroce che sanguinava. Credo che tra tutte le complicazioni che mio figlio sopportava in quel momento quest’ultima sia quella che dava i problemi peggiori. Lui non camminava ancora, la flebo limitava i movimenti e per tenerlo in braccio senza toccare l’irritazione si facevano le acrobazie.
Dormire? Che cosa significa dormire? Mi ricordavo di quanto mi ero sentita in colpa quella volta che lo avevo abbandonato nel lettino e stringevo i denti.
A causa del continuo allattamento, in venti giorni persi sei chili e presi due infezioni al seno, quindi antibiotici anche per me, così, per solidarietà.

Vedevo gli alberi fiorire fuori dalla finestra e non desideravo altro che uscire per una boccata d’aria. Non sono mai stata in prigione e prometto che farò la brava perchè, davvero, non ne voglio sapere di ripetere l’esperienza.
L’ultima settimana Harvey stava un pochino meglio, ma soprattutto i suoi globuli bianchi erano risaliti parecchio di numero. Una mattina soleggiata ci consegnarono la lettera di dimissione dall’ospedale.
Tutti i Natali e tutti i compleanni messi insieme non possono rendere l’idea della festa che fu fare un passo fuori dall’ingresso.
Non c’era una nuvola in cielo, la temperatura era ideale, la gente chiacchierava di frivolezze passeggiando. Notavo i cani e le automobili e il mondo mi sembrava bellissimo e armonioso.
Comunque, niente di tutto ciò può competere con il momento in cui entrai in casa e Nathan mi vide.
A giudicare da come era messo il suo orsacchiotto il piccolo aveva patito la mia mancanza.
I nonni mi raccontarono che, se prima Teddy gli serviva solo per addormentarsi, adesso se lo portava ovunque e non lo lasciava un secondo: neanche per mangiare, neanche per cambiarsi, neanche all’asilo.
Mi vide e rimase in silenzio a guardarmi, shockato per un secondo. Poi la sua espressione si accartocciò.
Buttò a terra tutto ciò che aveva in mano, orsacchiotto incluso, mi corse incontro piangendo a dirotto e mi strinse con tutta la forza di cui era capace. E non si staccò più, nemmeno per un secondo.
Nessun altro ebbe un briciolo della mia attenzione per le successive due ore.
Harvey dormiva e io volevo togliermi il gusto di lavarmi come si deve.
Entrai in doccia completamente vestita e con Nathan incollato addosso. Una volta inzuppati i vestiti e i capelli il piccolo si convinse che non avrei potuto scappare in quelle condizioni, così pian piano mollò la presa e giocammo insieme con l’acqua, per un tempo infinito.
Avanti veloce di due anni e adesso parliamo delle cicatrici.
Harvey ancora non si è pienamente rimesso. Le orecchie sono il suo punto debole e si infettano almeno una volta al mese. Contiamo ad oggi trentotto infezioni. Domani faremo un salto dal pediatra perchè, mentre scrivo, ho il dubbio che sia arrivata la trentanovesima.

Non ho voluto calcolare quanti litri di antibiotici hanno attraversato le viscere del mio piccolo malato cronico, preferisco non saperlo.
C’è da dire che ormai sono diventata espertissima in materia e riconosco quasi sempre un’infezione dai suoi primissimi sintomi. Il che riduce al minimo le ore di dolore e allunga i tempi in cui Harvey si vive la sua infanzia gioioso, come ogni bambino ha il diritto di essere.
Nonostante tutte le precauzioni e tutte le attenzioni, purtroppo i suoi timpani sono stati leggermente danneggiati. Si tratta di una perdita di udito per ora molto lieve. Stiamo facendo una valanga di visite e controlli per evitare che peggiori.
Mi sono dilungata parecchio perchè questa è una storia che conta. Non potevo solo scrivere: è stata dura, non avrei reso l’idea.
Sento con ogni cellula che adesso è il tempo dell’arcobaleno dopo la tempesta.
Gli ultimi anni sono stati una faticaccia e nel 2016 ho toccato il cosiddetto fondo, ma ne esco incredibilmente rafforzata.
Oggi percepisco la vertigine di un milione di possibilità distese di fronte a me e sono determinata a trarne il massimo.
Apprezzo la libertà di cui godo con un livello di consapevolezza che non avrei se fosse sempre stata sotto mano e con la gratitudine di chi sa che c’è mancato poco: poteva andare infinitamente peggio.
Le fotografie qui sotto sono state scattate il giorno prima di finire in ospedale.Quel pomeriggio, un’oretta dopo la Tachipirina Harvey aveva avuto un breve sprazzo di serenità.
Ho voluto prendere in mano la macchina fotografica, anche solo per pochi minuti, per immortalare il suo bellissimo sorriso in un momento in cui mi sembrava prezioso come non mai.