15 Feb Nessuno comanda. Si cresce insieme
(Questo articolo è la continuazione del precedente: Chi è che comanda?)
Harvey, il più piccolo dei miei due figli, era incazzato nero e aveva assolutamente ragione ad esserlo.
Per via della sua insufficienza immunitaria era quasi sempre malato con la febbre a 39° e giustamente, non era d’accordo.
Aveva due anni quando, a causa della mia separazione da suo padre, era stato definitivamente portato via da tutto ciò che conosceva: la sua casa, i suoi giocattoli, suo papà e il suo gatto, per andare a vivere in un appartamento piccolissimo, in un paese dove si parla un’altra lingua, e chiaramente, non era d’accordo.
Più o meno da quando ne aveva memoria, era stato cresciuto da un genitore solo, cioè la sottoscritta, nella sua peggior versione nevrotica e stremata, quando non c’erano né il tempo né le forze per fare di meglio che gestire le emergenze come fossimo sempre in guerra.
Gli erano mancate la pace e la normalità, povero bambino. Gli era mancato il calore della famiglia perchè lo stress se l’era mangiato tutto quanto.
Dunque, per non saper né leggere né scrivere, Harvey aveva deciso che lui, con tutto ciò, non era d’accordo.
In più (cosa che allora non sapevo) Harvey, caratterialmente, appartiene a quella minoranza di bambini oggi definiti “strong willed children” (letteralmente bambini dalla volontà forte). Caratteristica, questa, che ha contribuito ad impantanare la situazione ancor di più .
I bimbi “strong willed” si distinguono per essere parecchio “testardi” e difficili da crescere.
Nascono con la particolarità di essere intransigenti riguardo alla propria autonomia. Poter essere “responsabili” di se stessi, è una priorità nella loro lista di bisogni e spesso mettono il desiderio di “avere ragione” al di sopra di tutto.
Inoltre, essendo tipetti altamente determinati e difficilmente influenzabili, desiderano imparare le cose da soli, piuttosto che accettare quello che dicono gli altri. Quindi tendono a dedicarsi volentieri a mettere alla prova ogni limite, molto più degli altri bambini, direi costantemente.
Sono fantastici, per carità! Hanno tante qualità positive e la stoffa per trasformarsi un giorno in veri leader! Tuttavia, care orgogliose mamme di piccoli futuri “Giulio Cesare”: per crescerli, ve la raccomando!
Insomma, per farla breve, proprio per come sono fatti questi incorruttibili signori, nulla gli può essere imposto. Fanno di testa loro, punto. Conviene abituarsi.
Ecco, Harvey era tutto questo, tutto insieme e in un momento in cui c’era già troppissimo sul piatto delle grandi sfide.
Sia io che lui avevamo veramente bisogno di trovare una strategia per sopravvivere e nel suo caso, la strategia consisteva nel ribellarsi costantemente, nel protestare contro lo status quo.
Nel dubbio poi, su a cosa avrebbe avuto senso opporsi, lui faceva prima e si opponeva a tutto.
A TUTTO.
Volendo fare l’inventario di ciò che componeva le nostre giornate, le crisi nervose di Harvey risultavano frequenti e rilevanti come le parole dentro a un libro. Tutto il resto era punteggiatura.
Per lui preparavo sempre due pranzi, perchè sapevo che almeno uno sarebbe stato lanciato dritto sulle piastrelle della cucina.
Ogni volta che dovevamo uscire di casa si teneva conto dei tempi biblici per convincere Harvey a prepararsi, oltre che, di un’era geologica di percorso, per arrivare a raggiungere il panettiere dietro l’angolo.
Purtroppo il mio bimbo “sempre in sciopero” era il più grande dei miei problemi, perchè il suo modo ribelle di chiedere attenzioni finiva per generare costantemente il caos.
Non voleva MAI dormire, non voleva MAI mangiare, non voleva MAI lavarsi le mani, né fare nulla di tutto ciò che gli serviva fare e si opponeva con grande forza a qualsiasi cosa gli venisse chiesto.
Non voleva nemmeno fare la cacca. La tratteneva, per una settimana intera, arrivando a diventare iper nervoso, correndo e lamentandosi, su e giù per la stanza, nel tentativo di ribellarsi anche alla fisiologia del suo stesso corpo. Qualche volta il clistere era l’unico modo per spingere il tasto reset, aiutarlo a liberarsi e ripartire da zero.
Mio figlio Harvey è un bambino con una forza di volontà gigantesca. Quando sarà adulto questa qualità gli tornerà molto utile e sono fiera di lui per questo.
Io, da parte mia, penso di essere una persona molto forte e molto determinata, ma indubbiamente Harvey mi batte. Allo stesso modo mi batte anche sul campo in cui più di ogni altro primeggio, ovvero la sensibilità.
Proprio per questo, proprio perchè estremamente sensibile e vulnerabile, Harvey aveva imparato a difendersi manifestando la sua rabbia verso questa vita con cui non era affatto d’accordo, ribellandosi con le unghie e coi denti e anche con tutto il suo coraggio.
Se poteva fare un dispetto, rompere un gioco al fratello, tirare giù qualcosa dagli scaffali, lanciare oggetti contro le finestre, mordere o prendere a calci me o Nathan, dare fastidio urlando o in qualsiasi modo gli passasse per la testa, per ore di fila e apparentemente senza motivo, non perdeva occasione.
Alla scuola dell’infanzia mi avevano consigliato di fargli iniziare un percorso di psicoterapia, ma lo psicologo aveva detto che era troppo presto.
Harvey in realtà era solo molto in difficoltà e di conseguenza lo eravamo anche noi.
Anche a me serviva una strategia per sopravvivere a tutta quella tensione e per poterla metterla in pratica avrei dovuto rimboccarmi le maniche e impegnarmi a cambiare. Avrei dovuto crescere.
La mia unica possibilità di salvezza passava attraverso due indispensabili lezioni che avevo davvero bisogno di apprendere:
1.Cambiare completamente il mio approccio e imparare a far sentire al sicuro un bambino “difficile” come Harvey.
2.Imparare a chiedere aiuto
Partiamo dal primo punto.
I bambini “strong willed” sono bambini del futuro, come piace dire a me.
Penso esistano perché é tempo di portare l’intero sistema sociale verso un modo di educare che passi per la pazienza, la condivisione, la spiegazione ripetuta del perchè dietro ogni passaggio.
Ho imparato sulla mia pelle che l’imposizione della disciplina, con loro, ha vita molto breve, semplicemente perchè, per come sono fatti, non può funzionare.
Di conseguenza puoi scordarti le scorciatoie del tipo “si fa così perchè lo dico io” o le punizioni o i ricatti o le imposizioni alzando la voce. Tutto ciò non porta da nessuna parte, anzi, non fa altro che esacerbare la loro ribellione.
Sono grata ad Harvey per essere stato il mio primo grande maestro su questo fronte.
A forza di informarmi in cerca di soluzioni ho capito molto bene che questi metodi (dis)-educativi di vecchio stampo vanno comunque al più presto relegati alla preistoria, perchè non fanno bene a nessun bambino, strong willed o meno.
Mi spiace signori, ma: “io faccio le regole e tu ubbidisci perchè l’adulto sono io e conosco le cose meglio di te” non è educazione: è dittatura.
Se vogliamo crescere futuri adulti sicuri di sè e allo stesso tempo, in grado di mettersi in discussione, è ora che chi si sta ancora affidando alla genitorialità “dall’alto” cambi rotta e si abbassi a livello dei propri bambini.
Altrimenti continueremo a perpetrare l’idea che le cose si ottengono con la forza e che, anche se non sei d’accordo col potere, devi lo stesso obbedire.
Con questa mentalità, ahimè, abbiamo un altissimo rischio di allevare altri cronici insicuri e/o potenziali dittatori, e non è certo questo ciò che ci auguriamo per i nostri figli.
Tornando a noi. Con un bambino “strong willed”, se vuoi uscirne vivo, devi dimenticarti le scorciatoie e imparare a fare il genitore sul serio, con tutte le menate che ne conseguono.
Inoltre, devi rassegnarti ad aspettare molti anni, prima che qualsiasi tuo sollecito venga ascoltato, perché quel bambino farà quello che gli stai chiedendo, solo se comprende così bene il giusto motivo che c’è dietro alla tua richiesta, da riuscire a mettere da parte i suoi bisogni per ascoltarti.
Per qualsiasi bambino, questo non è affatto un salto mentale facile, figuriamoci per un indipendente, anarchico e ribelle come il mio.
Infatti per Harvey “obbedire” non è mai esistito. Così come, ancora adesso non esiste il concetto di “subito”.
A costo di piangere mezza giornata di fila aggrappato alla tua gamba, se Harvey dice no è no. E non cambierà certo idea, perché siamo in ritardo o tu sei stanca o lui è stanco o tanto meno perché “in cambio ti do una caramella”. Scordatelo.
Così, diversamente da come mi era stato insegnato (e per fortuna!), ho dovuto imparare a diventare quel tipo di genitore molto adulto e molto rispettoso che con voce pacata spiega a suo figlio per la miliardesima volta, perchè non è una buona idea tentare di infilare la forchetta negli occhi del fratellino.
Accoglienza ed empatia prima di tutto: «Lo so tesoro che avresti tanta voglia di accecare Nathan e ti capisco, ma purtroppo non si può fare.» Mentre nel frattempo “tesoro” ti mette alla prova ridacchiando e chiamandoti “stupida”, invece di ascoltarti, oltre a punzecchiarti la coscia con la suddetta forchetta.
Ho dovuto farmi forza e guardare in faccia tutta la rabbia che mi si scatenava dentro, quando ogni volta, mi sentivo succube di mio figlio, costretta a “dargliela vinta”.
Sì certo, forse lui è effettivamente un bambino piuttosto impegnativo da crescere, ma non è lì che stava la sfida più grande.
Come sempre, il mondo ci fa da specchio, puntando amorevolmente il dito verso le nostre ferite più profonde, nella speranza di convincerci ad alzare il cosiddetto fondoschiena e lavorare sodo per guarirle.
Chiaro che, essendo io stata cresciuta “alla vecchia maniera”, una parte di me faceva una resistenza pazzesca ad essere messa nuovamente da parte.
Ma come? A me non è stato concesso di essere in disaccordo con “chi comanda” e adesso questo minuscolo esserino malefico, al quale sto concedendo infiniti privilegi in più, (rispetto a quelli che ho avuto io) si permette pure di prendermi in giro??
Certo, avevo capito che il rispetto dei bambini si ottiene (dopo molti anni) a forza di dare il buon esempio, rispettandoli e ascoltandoli con empatia e pazienza, ma all’inizio non mi veniva affatto naturale!
Questo perché, quando fui io al posto di Harvey, con tanto di pannolone e forchetta minacciosamente impugnata verso gli occhi di mia sorella, i miei genitori semplicemente risolvevano con uno bello scapaccione sul sedere e fine di qualsiasi ribellione.
Easy, per loro. Ancora oggi convinti che sia giusto così e che dovrei seguire il loro esempio.
Non lo seguró, ma li capisco. Non ce l’ho con loro.
Ad ogni mentalità il suo contesto. Forse a suo tempo, la loro prospettiva poteva anche avere senso.
La generazione che ha preceduto la nostra, è stata a sua volta cresciuta da gente che ha guardato la fame e la guerra, direttamente nelle pupille.
Chi poteva garantire ai nostri nonni che i tempi duri non sarebbero tornati? Che i loro figli non avrebbero dovuto, a loro volta, schierarsi al fronte?
La società di allora era tarata sulla sopravvivenza, non sull’auto affermazione.
Di necessità virtù. Quelle persone, non avevano scelta, se non quella di sottomettersi a chi comandava e fare esattamente quello che gli veniva ordinato. No, non c’era spazio per le domande e le chiarificazioni. Abituare i bambini all’obbedienza cieca e alla disciplina era prioritario.
Te lo vedi Harvey in trincea? Quando il generale gli ordina di gettarsi nel fango senza fiatare e di non muoversi? «Perchè mai dovrei? No, non mi va, tu statti zitto!» Ecco, le ultime parole di Harvey.
Una volta si viveva in un contesto molto diverso dal quello attuale, oggi invece, noi genitori, abbiamo la libertà di scegliere di toglierci di mezzo (se non in quanto amorevoli guide o supervisori) per permettere ai nostri figli di apprendere da sè, senza costrizioni.
Credo che lasciare ai più piccoli la possibilità di sperimentare sulla propria pelle le conseguenze delle proprie azioni equivalga a fargli un gran bel regalo.
In termini pratici: “Riordina la tua cameretta perché altrimenti ti metto in punizione” non ha più senso di esistere. Mentre: “riordina la tua cameretta perché altrimenti, a un certo punto, farai fatica a trovare le cose che ti servono” é un buon consiglio.
Se, fatta questa premessa, permettiamo loro di viversi il disagio del proprio disordine (per esempio, o qualsiasi altro disagio), ecco che a un certo punto, afferreranno da soli la lezione e verranno a chiederci di insegnargli come fare meglio.
É così, secondo me, che i bambini sviluppano il loro senso critico e il loro libero arbitrio, oltre che la fiducia in noi.
Certo, all’inizio per noi genitori è una faticaccia, dover sempre spiegare tutto, millemila volte, ma a lungo termine paga! È molto più efficace come apprendimento perché passa per l’esperienza anziché per la paura e ha anche il buon effetto collaterale di solidificare il rapporto che i bimbi hanno con noi.
Chiusa questa doverosa lunga parentesi, ora posso riprendere con la mia storia.
Nel nostro caso, fortunatamente Harvey mi ha adeguatamente istruita sul fatto che no, non è più con la clava che si insegna (pena fare un sacco di danni).
Ho imparato.
Oggi guardo gli enormi passi avanti che abbiamo fatto io e Harvey e l’abissale differenza con cui ora si rapporta a me e posso dire di essere stata promossa. Anche se di certo non è stata una scuola facile.
A suo tempo, però non era ancora così e ad un certo punto sono arrivata ad odiare anche il sangue del mio sangue.
Lo confesso: detestavo colui che più di ogni altro istintivamente avrei solo voluto amare. Lui lo sentiva e reagiva chiedendo le mie attenzioni con ancora maggior forza, sempre alla sua solita maniera, ma io non potevo farcela.
Proprio così, non riuscivo più a sopportare mio figlio: stavo uscendo di testa.
Il mio corpo stava manifestando una quantità di sintomi, dovuti allo stress, a cui non riuscivo più a star dietro. Il collasso mentale era dietro l’angolo.
Sapevo che Harvey non era colpevole, nè cattivo (non esistono bambini cattivi, esistono solo bambini sereni e bambini in difficoltà). Sapevo che era vittima della situazione tanto quanto me, eppure i miei nervi costantemente presi a randellate a volte supplicavano una tregua.
C’erano giorni in cui, allontanarmi da lui, sembrava l’unica via per resistere alla tentazione di chiuderlo in un bel pacco postale e domandare il reso.
Così ingoiai un boccone per me particolarmente difficile da buttare giù: da sola non ce l’avrei fatta.
Io che mi vanto di essere una donna forte, io che me la sono sempre abbastanza cavata da sola, dovetti mettere da parte l’orgoglio e la paura del rifiuto, per imparare finalmente a chiedere aiuto.
Il padre di Nathan e Harvey vive lontano, in un’altra nazione. In più è del tutto inaffidabile e incostante, sia nella sua presenza che nel mandarci anche solo il minimo indispensabile di quello che sarebbe toccato a lui sostenere, a livello economico. Io allora non avevo assolutamente le forze di affrontare lo stress di una causa legale internazionale, quindi mi rassegnai a chiedere altrove.
Mia sorella era ed è sempre stata per me un porto sicuro.
Mi aveva accolta a braccia aperte al mio rientro dal Regno Unito e mi aveva aiutata in tantissime faccende collegate al nostro reinserimento in Italia. Dalla ricerca di un posto alla scuola dell’infanzia per Harvey, alle questioni burocratiche per ottenere tutti i documenti, al trasloco, a tutto quanto di pratico è stato necessario.
Mia sorella Cinzia mi ha sempre ascoltata, supportata e abbiamo pianto e riso insieme, durante tutte le mie e le sue difficoltà.
Se non ho ancora perso il lume della ragione, devo ammetterlo, almeno il 50% dei ringraziamenti vanno indirizzati a lei.
Sul fronte “aiutarmi con i bambini”, però, non potevo chiederle nulla, perchè purtroppo, anche lei a suo tempo aveva i suoi giganteschi grattacapi con il suo bambino e le bastavano quelli. Non c’era persona al mondo che lo capisse meglio di me, perciò, nuovamente, mi rassegnai a chiedere altrove.
Restavano i miei genitori, che però abitavano troppo lontano per alleggerirmi ogni tanto, prendendo con sè i bambini un paio d’ore.
Mi sentivo in colpa nei loro confronti, perchè mi stavano già pagando l’affitto e pure i viveri, non potendo io lavorare, nella situazione in cui ero.
Comunque, non c’era via di scampo, avevo veramente bisogno di qualcuno che mi aiutasse in casa e che mi permettesse di uscire ogni tanto per rimettere in ordine le idee, così mi feci forza e chiesi altri soldi.
E loro mi dissero di sì.
In più chiesi di poter affidare loro i bambini un giorno e una notte ogni due settimane, per avere un’occasione sicura dove recuperare un po’ di sonno e un po’ di energie.
E loro mi dissero di sì. Santi genitori.
In questo modo, adesso, oltre alla scuola dell’infanzia, (che mi permetteva di respirare quando raramente Harvey era in salute) subentró presto anche una babysitter, ad aiutarmi qua e là, per qualche ora a settimana.
Poi un bel giorno, uno dei vari esperti che avevamo consutato, ci ha invitò a considerare l’opzione che, parte del nervosismo cronico di Harvey fosse dovuto ad un’intossicazione del fegato, causata dalla quantità disumana di antibiotici che ha dovuto trangugiare nel tempo.
Questa informazione preziosissima, per quanto indirizzasse solo una parte dei problemi, fu comunque vitale per alleggerirli parecchio.
Grazie ad una cura disintossicante mirata, nel giro di appena un mese, il comportamento di Harvey migliorò in maniera sorprendente.
Questo, unito a tutto l’aiuto esterno che ho ricevuto dalla mia famiglia, fu l’inizio di una lenta, ma costante, risalita verso la normalità.
Qui va aggiunto che, appena ebbi modo di recuperare un minimo di forze, subito ripresi in mano il mio sogno di costruirmi una carriera come fotografa.
Nonostante la babysitter e tutto quanto, allora, non avevo ancora abbastanza tempo e lucidità mentale per dare al mio sogno una forma concreta e attuabile. Tuttavia, anche solo il fatto di pensarci, di sognare ad occhi aperti, di passare il tempo libero a ritoccare foto scattate, non ai clienti, ma ai miei bambini e a scrivere questo blog, mi teneva in vita.
Sono abbastanza certa che è proprio al mio sogno che devo l’altro 50% dei ringraziamenti, se non ho ancora perso il senno.
Questo è, per quanto riguarda Harvey.
Resta una grossa fetta di cui parlare, che fa altrettanto parte della nostra complicata equazione famigliare, ma che ho volutamente tenuto fuori da questo racconto e di cui parlerò più avanti.
La fetta che riguarda Nathan.
Leggi l’inizio della storia di Harvey: “Cicatrici”