10 Mag Secondo round
Una balena. Ecco come mi sentivo.
Per trovarmi in movimento dovevi vedermi nuotare, perchè sulla terra ferma non sapevo più bene come comportarmi.
Così come l’impasto del pane, che al caldo cresce meglio, anche il mio pancione, durante quell’estate torrida, era lievitato ben di più che la volta precedente.
Le ultime settimane non c’era più niente che mi entrasse, eccetto il vestito invernale che avevo addosso quando ho partorito Nathan.
Vestito invernale e luglio, purtroppo, sono due concetti che non vanno molto d’accordo. Alla fine, però, chi aveva voglia di andare a comprare roba nuova quando ormai mancava così poco? Perchè, infatti, mancava poco, dico bene??
Speravo che Harvey seguisse il buon esempio del fratello maggiore e nascesse anche lui due settimane in anticipo.
La borsa dell’ospedale questa volta era pronta da un pezzo ed io, che davvero non ne potevo più, avevo preso a contare non solo i giorni, ma anche le ore.
Nove mesi prima, Nathan aveva compiuto nove mesi.
Aveva appena cominciato a camminare e stava ingrassando a vista d’occhio dopo aver scoperto le gioie del cibo solido.
Io non stavo usando la pillola e il ciclo non era ancora ricomparso, forse anche per via delle poppate ancora frequenti.
Visto il progressivo arrotondarsi di mio figlio, eravamo giunti alla conclusione che, se anche mi fossi stufata di allattare, non gli sarebbero comunque mancate le calorie.
Ed io mi ero stufata di allattare.
A dire il vero, non esattamente. Piuttosto mi ero stufata di separarmi varie volte a notte dal tepore delle coperte, per farmi rosicchiare i capezzoli da un pretenzioso castorino in piena dentizione.
Fu così che, appena interrotto l’allattamento, ritornò il ciclo.
Una mattina, circa due settimane dopo il capoparto, mi svegliai con lo stomaco un po’ sottosopra.
Pensai di aver esagerato con i funghi fritti la sera prima, ma, ovviamente, il test di gravidanza fornì un’altra interpretazione.
«Wow! Di già?». Ero felicissima che fosse successo così presto! (Un po’ meno felice di avere già la nausea).
Mi esaltava l’idea che i miei bimbi avrebbero avuto solo un anno e mezzo di differenza: c’era tutto il potenziale perchè legassero un sacco, così come era successo a me con mia sorella.
Il problema della nausea non era stato divertente nella prima gravidanza, ma questa volta fu un vero incubo.
Non riuscivo a mangiare niente, la pancia cresceva di volume, ma il mio peso, nonostante gli sforzi, continuava a scendere.
Anche perchè, signori, avere costantemente il voltastomaco e passare le giornate a letto è una cosa, mentre avere costantemente il voltastomaco e dover comunque badare ad un bambino sotto l’anno è una ben diversa sfacchinata.
Comunque, niente da dire, c’era chi mi ricordava: «L’hai voluta la bici?» Ecco. Ed io, la bici, l’avevo proprio voluta, addirittura quasi del tutto consapevole che il sentiero procedeva in salita. Non mi restava altro che pedalare.
Per quasi quattro mesi ebbi i conati ogni volta che cambiavo Nathan, ogni volta che aprivo il frigo, ogni volta che entravo in una stanza dove qualcuno si era messo il deodorante.
Non uscivo mai di casa senza la mia “ciotola per le emergenze”, anzi, a dir la verità, non uscivo quasi mai di casa.
Arrivai al secondo trimestre che questa gravidanza mi aveva già sfinita.
Purtroppo, però, il peggio doveva ancora venire.
Al quinto mese scoprimmo che Nathan avrebbe presto avuto un compagno con cui giocare a calcetto.
Io in realtà speravo in una femmina.
Sai, per una fotografa, una femminuccia significa un guardaroba variegato dai colori pastello, con tanto di tulle e merletti, un infinità di scarpine di strass e i palloncini rosa a forma di cuore negli sfondi.
E invece niente: un altro ometto.
Ahimè, i vestiti da maschio vanno cercati con il lanternino e bisogna prepararsi a spendere, perchè appena si scende al di sotto di Zara, come qualità, ci si ritrova i cassetti pieni di magliette inguardabili, dove i supereroi fanno a pugni tra di loro, mentre i colori fanno a pugni con chi ha un minimo di senso estetico!
Fortunatamente però, l’Universo non funziona come Babbo Natale e conosce molto meglio di me quello che in realtà mi serve.
Oggi sono contenta che la mia letterina sia stata ignorata.
Quando osservo quei due mentre si rincorrono con le pistole facendo un baccano infernale so di essere nel posto giusto. Sono fiera di aver messo al mondo due inseparabili furfantelli.
In più, essendo un po’ maschiaccio anche io, è meglio sia andata così: ci intendiamo alla grande!
Poi, senza nessun preavviso, una mattina in cui ero a casa da sola con Nathan, bussò alla porta ”il peggio”.
«Buongiorno posso entrare?»
«N-no, grazie, la signora non è in casa. Come dice? No no, non sono io! E comunque non compro niente…Mi sa che ha sbagliato indirizzo, arrivederci!»
Niente da fare.
Una fitta violenta mi colpì al fianco destro e fui costretta ad appoggiare a terra il piccolo e a sedermi, in attesa che passasse.
Non passò.
Per alcuni minuti continuò ad intensificarsi, fino a stabilizzarsi su una soglia di dolore che mi permetteva a mala pena di respirare.
Faceva male esattamente come una contrazione da parto, ma invece che andare e venire si era accasata nel mio ventre come una pugnalata.
Terrorizzata, mentre sudavo profusamente, mi guardai intorno in cerca del cellulare. Lo avevo lasciato sul letto. Irraggiungibile.
Dall’altra parte della stanza, appoggiato sul davanzale, giaceva il telefono di casa. Anche quello troppo lontano, ma forse non irraggiungibile.
Con la lentezza e la cautela di chi si muove sul filo del rasoio, feci scivolare il sedere giù dal cuscino: una mano era saldamente ancorata al bracciolo del divano, l’altra premeva contro l’invisibile ferita.
Una volta raggiunto il pavimento mi occupai di trovare un modo per strisciare verso la salvezza.
Ogni micro movimento equivaleva a rigirare il coltello nella piaga e Nathan non facilitava certo le cose. Poverino, non aveva capito perchè quella lunatica di sua mamma avesse improvvisamente deciso di abbandonarlo per mettersi a giocare ai soldati in trincea.
Così mi dimostrava la sua frustrazione tirandomi per la maglia e contorcendosi in mille smorfie e mille acrobazie su e giù dalla mia schiena.
Non potevo far altro che ignorarlo. Avrei voluto sussurrargli che andava tutto bene, che la mamma non aveva niente e che sarebbe tornata presto da lui, ma non mi avrebbe mai sentita: i decibel con cui urlava il suo disappunto superavano di parecchio quelli che potevo permettermi io, senza fiato.
Afferrai il telefono come fosse l’ultima brocca d’acqua nel deserto e digitai il numero delle emergenze.
Mi ascoltarono, ma non c’erano ambulanze disponibili al momento. Mi avrebbero richiamato nel giro di un’ora per controllare come stava andando e sarebbero venuti a soccorrermi appena possibile.
Wow, seriamente? E se avessi veramente ricevuto una pugnalata? Se avessi avuto, che so, un infarto? Che facevamo? Ci risentivamo un’ora dopo con un telegramma dall’aldilà!?
Non chiedetemi che cosa penso della sanità inglese.
Riagganciai e composi il numero del mio compagno. Non rispondeva. Piansi.
Nel frattempo Nathan, che aveva fame e sonno, stava dando in escandescenza.
Non conoscevo altri numeri di telefono a memoria e raggiungere il cellulare nell’altra stanza non era un’opzione.
Non ricordo nessun altro episodio in vita mia in cui mi sentii egualmente impotente.
Alla fine il piccolino si sfiancò a forza di piangere e mi si addormentò addosso.
Poi squillò il telefono: era il mio fidanzato.
Gli spiegai la situazione con la voce spezzata dal dolore e dalla preoccupazione. Lui era lontano, ci avrebbe messo almeno mezz’ora a tornare a casa.
Avevo molta paura.
Con un livello di conoscenze mediche pari più o meno a chi sostiene che prendere freddo fa venire l’influenza, avevo dedotto che, o avevo l’appendicite, o stavo perdendo il bambino.
Sdraiata a terra, con Nathan tra le braccia e gli occhi fissi sull’orologio, aspettavo.
Intanto occupavo la mia mente impanicata passando in rassegna tutti i miei pasti degli ultimi tempi, specialmente quelli meno salutari, soprattutto se c’era del cioccolato, cercando di convincermi che poteva anche trattarsi di appendicite.
Dopo una mezz’ora il dolore era diminuito leggermente. Non dico che fosse sopportabile, ma almeno lo presi come un buon segno.
Mi richiamarono dall’ospedale. Ancora niente ambulanza. Gli dissi che mi sarei arrangiata da sola e grazie tante.
Poi arrivò il mio compagno e ci avviammo al pronto soccorso dove mi attendevano altre cinque ore di coda.
No, non sto scherzando.
Finalmente mi visitarono e quando, dallo schermo dell’ecografia, vidi il piccolo che si muoveva dentro alla pancia, tirai il più grande dei sospiri di sollievo.
Nel frattempo il dolore era di molto migliorato, ma mi avrebbero comunque ricoverata per completare gli accertamenti.
Non mi dispiacque. Dopo uno spavento del genere, qualche giorno a letto con pranzo e cena serviti era un lusso a cui non avrei detto di no.
Alla fine conclusero che la mia pancia era cresciuta troppo velocemente e non aveva dato il tempo ai muscoli e ai legamenti di adattarsi all’aumento di pressione. Così, in quella sfortunata circostanza, un legamento aveva ceduto e si era strappato.
Capita molto raramente, mi dissero, ma se capita può fare davvero male, come era successo a me.
Niente appendicite dunque. Che fortuna!
Un po’ di riposo e qualche antidolorifico e sarei ritornata come nuova…
E invece no, non esattamente.
Neanche un paio di mesi dopo e questa pancia, che era cresciuta troppo in fretta, stava già creando nuovi problemi.
Le mie caviglie erano gonfie e doloranti, avevo il mal di schiena costante, la candida e l’acidità di stomaco. Soffrivo il caldo come un san bernardo nel Sahara e faticavo a dormire perchè non esisteva più una posizione comoda e perchè le volte che mi dovevo svegliare per fare pipì non si contavano più.
Insomma, presentavo l’intera gamma degli effetti collaterali che più o meno accomunano tutte le lamentose donne all’ottavo mese.
Io però, a differenza delle altre, potevo vantare la ciliegina sulla torta.
Le mie anche, come i legamenti, non avevano avuto il tempo di adattarsi al rapido cambiamento e una delle due aveva detto all’altra : «Sai che ti dico compagna? Io mi sono rotta le scatole di lavorare extra, adesso mi siedo e buona fortuna a te.»
E così, l’anca traditrice si era abbassata, inclinando il bacino da una parte e provocando un discompenso nella distribuzione del peso, che adesso gravava quasi solo sulla sorella martire.
Poco per volta la pressione eccessiva sull’attaccamento tra l’anca e il femore aveva infiammato la cartilagine e camminare, o meglio zoppicare, era diventata la peggiore delle torture.
Così mi ero tagliata le unghie cortissime (quelle delle mani, a quelle dei piedi non arrivavo più da un pezzo) e per muovermi mi aggrappavo a qualsiasi cosa incontrassi: alle cornici delle porte, ai mobili, alle finestre, ai muretti e a chiunque mi offrisse gentilmente una spalla per traghettarmi dal punto A al punto B.
Facevo fare alle braccia il lavoro che prima facevano le gambe. Avresti dovuto vedere che bicipiti un paio di mesi dopo!
Era chiaro che, in quelle condizioni, non potevo più occuparmi da sola di Nathan e nemmeno di me stessa.
Così, le ultime settimane, quando, bicipiti o meno, proprio non ce la facevo più, il mio ragazzo aveva chiesto un permesso per stare a casa da lavoro: una specie di paternità prolungata e non retribuita.
Meno entrate: amen. Di maggior rilevanza: meno rughe sulla mia faccia e meno stress alle soglie del countdown finale.
Ora possiamo passare alla parte che stavi aspettando, e fidati, a suo tempo, la aspettavo con impazienza anche io!
Speravo che, come Nathan, anche il mio secondogenito sarebbe arrivato con un pochino di anticipo, ma Harvey fu più taccagno del fratello.
La data prevista era stata fissata al 22 di luglio, mentre fu la mattina del 21, il giorno in cui mi svegliai dando il buongiorno alle prime contrazioni .
4:00 a.m. Aprii gli occhi e avvertii dolore.
Niente di eclatante: un dolore lieve, stabile, simile ai crampi del ciclo.
Poteva essere qualsiasi cosa: negli ultimi giorni ero praticamente da rottamare.
Tuttavia, ormai la speranza aveva fatto capolino in un angolo del mio cervello, ma non volevo svegliare il mio compagno con un falso allarme, e soprattutto non volevo illudermi troppo per poi restarci male.
Così, senza dire niente a nessuno, mi sedetti comoda, abbracciando la pancia, in ascolto.
È difficile descrivere esattamente come mi sentivo in quel momento. Stavo molto bene ed ero molto calma.
Con Nathan non avevo avuto un momento per pensare, subito prima di diventare mamma, in questo caso invece mi era stato concesso.
Nell’unica ora del giorno in cui non faceva ancora troppo caldo, tutti dormivano beati: non c’era un rumore a disturbarmi.
Anticipai con la mente il momento in cui avrei incontrato il mio piccolo. Cercai di immaginare i tratti del suo volto facendo un collage tra i miei, quelli del mio compagno e quelli di Nathan.
Mi domandavo se anche lui sarebbe nato chiaro come suo fratello, per poi colorirsi in seguito, o se questa volta la razza africana avrebbe prevalso da subito.
Soprattutto fantasticai sulle prime interazioni tra il neonato e il fratello maggiore. Nathan sarebbe stato geloso? O curioso, o cosa? C’era così tanto da scoprire e devo ammettere che friggevo dall’impazienza.
Con l’aumentare del dolore aumentava anche la mia eccitazione e un’ora e mezza più tardi potevo finalmente riconoscerle: le onde ritmiche delle contrazioni.
C’era tempo, almeno così pensavo. Passavano come minimo dieci minuti tra una contrazione e l’altra.
Decisi comunque di svegliare il mio ragazzo che, visto com’era andato il parto precedente, accolse la notizia con meno calma zen di me.
La borsa era pronta, in cinque minuti noi e l’auto eravamo pronti, ma prima di partire ebbi la necessità di passare in bagno.
Suppongo che i movimenti interni, dovuti alle contrazioni, stessero comprimendo il mio intestino, perchè fui improvvisamente raggiunta dalla peggior dissenteria fulminante di sempre.
Mezz’ora buona, incatenata alla tavoletta. Poco da fare, finchè il mio intestino non ebbe terminato il trasloco non potemmo lasciare casa.
Nel giro di così poco tempo, le contrazioni erano raddoppiate, come frequenza e come intensità.
A quanto pareva, si preannunziava di nuovo un parto flash. Contando che dovevamo ancora passare a lasciare Nathan a casa della prozia, rieccoci: era ora di correre!
Tempo di affidare il piccolo ad una faccia conosciuta e di raggiungere l’ospedale, erano le sette, ed io ero entrata in pieno nella fase da urlo.
A causa della mia anca infiammata non potevo camminare. Perdemmo ulteriori minuti preziosi alla ricerca di una sedia a rotelle.
Anche questa volta, ci avevo riprovato e avevo scritto nelle note per l’ospedale che desideravo partorire in acqua e che autorizzavo l’uso degli antidolorifici.
Date le mie urla, molto esplicative, saltarono i preamboli burocratici e mi accolsero d’urgenza nella stanza per le visite, adiacente alla sala parto.
Servivano dieci minuti per riempire la vasca d’acqua. Nel frattempo mi fecero sdraiare sul lettino e misurarono la mia dilatazione, quindi dedussero che no, non li avevamo dieci minuti.
Mi chiesero se ero in grado di aspettare o se volevo partorire nella sala delle visite. La mia risposta, educata e signorile fu: «Chissenefrega del parto in acqua, procediamo!!»
Poi qualcuno, per alleviare il dolore, mi portò il sacro graal, ovvero la mascherina dell’ossigeno. (Ecco qua svelato, come scopersi la più fantastica e più sottovalutata delle droghe.)
Con l’ossigeno puro, bastano una manciata di respiri e sei completamente sballato, come dopo un’ intera bottiglia di vodka. Però non dà dipendenza, ed è sufficiente staccarsi un minuto dall’inalatore che il tuo corpo ritorna rapidamente sobrio, senza nemmeno subire gli effetti collaterali della sbornia. Un terno all’otto insomma!
Rispetto alla prima volta, partorire con la schiena appoggiata a qualcosa, un tetto sulla testa, e soprattutto, con l’aiuto del fantagalattico ossigeno, fece la differenza.
In quegli ultimi giorni la pelle del mio ventre, lucida e tesa all’inverosimile, mi aveva fatto temere che se Harvey non si fosse deciso a scomodarsi al più presto, si sarebbe strappata, ed io sarei esplosa con un botto, come un gavettone.
Fortunatamente, il botto avvenne, sì, ma da sotto.
Esattamente come con Nathan, saltò il tappo e le dirompenti cascate del Niagara allagarono il lettino dell’ospedale (e il camice dell’infermiera).
Appena ebbi finito di accompagnare la drammaticità dell’evento con un urlo di adeguata potenza, ri-mmersi le vie aere nel flusso di ossigeno e inalai profondamente.
Così profondamente che le luci della stanza e le voci delle infermiere cominciarono ad affievolirsi.
In lontananza, sempre più in lontananza, echeggiava l’ammonimento del personale medico: «Tolga la mascherina! Se respira troppo ossigeno sarà meno vigile e perderà il controllo sulle spinte!»
Dall’incoscienza della mia mente annebbiata eliminai la parte superflua del discorso e conservai ciò che mi interessava: «Se respira troppo ossigeno sarà meno vigile.» Perfetto: esattamente ciò che volevo! Ed inalai ancora più profondamente.
Fortunatamente il mio corpo ormai andava avanti in modalità pilota automatico.
Le spinte, una dietro l’altra come bravi soldatini, sapevano da sole quando partire e quando smettere, con il giusto ritmo e la giusta intensità.
Forse forse, era pure vero che, arrivati a quel punto, la mente poteva anche permettersi il lusso di lavorare part-time.
Una volta riempiti nuovamente i polmoni di ossigeno puro, tutti i suoni si condensarono in un lontano ronzio. Il dolore scomparve e la luce si espanse.
Ricordo la sensazione di leggerezza mentre salivo verso l’alto, fino ad emergere nella pace bianca di questo luogo luminoso dove la coscienza ed il ricordo erano assenti.
Durò poco. Rapidamente, ma dolcemente tornai giù, nel corpo, ad assistere, almeno parzialmente, allo strazio della fitta successiva. E a quanto pareva, la testa di Harvey era fuori.
«Ci siamo, ancora qualche spinta e il gioco è fatto.» Sfruttai fino all’ultimo la benedizione della mia vodka respirabile.
Poi, distintamente, alle 7:38 l’aria vibrò con il gemito di una vocina nuova.
L’uovo di Pasqua si era aperto ed io potevo finalmente appoggiare lo sguardo sulla mia meritata sorpresa.
Meravigliosa creatura. Esattamente come la prima volta, mi innamorai immediatamente.
Che gioia immensa!
Tutto era andato alla grande. Fuori splendeva il sole ed io ridevo come una pazza per ogni minima cosa.
Harvey stava benone e si attaccò subito al seno, senza problemi.
Il parto aveva superato l’insuperabile rapidità del parto più rapido della storia, ed io stavo alla grande: Oh yeah!
Non mi servivano punti, potevamo tornare a casa subito dopo i controlli di routine.
Dal momento che il piccolo principino si era addormentato quasi subito, decidemmo di prenderci del tempo e lasciare che la placenta uscisse naturalmente, anzichè velocizzare le cose con un’iniezione.
«Cibo per favore!». Una fame vorace era il segnale che al il mio corpo servivano gli zuccheri per ricaricare le batterie. Mi arrivarono dei toast e li divorai con gusto.
Poi, eccola! Un po’ meno sorprendente la seconda volta, ma pur sempre un’ esperienza: non capita tutti i giorni di espellere un organo senza subire conseguenze.
Questa volta però, mi chiesero se avevo dei parenti extraterrestri, perchè stranamente la placenta presentava quattro vene invece che tre, cosa che non avevano mai visto prima. «Boh?». Comunque, siccome stavamo tutti bene, pareva non ci fossero problemi.
Alla fine ci tennero qualche ora in osservazione, sai mai, in caso che Harvey decidesse di mutare in un alieno mucillaginoso per un inaspettato twist alla fine del racconto!
Nel frattempo, il neo bis-papà ebbe il tempo di andare a recuperare Nathan dalla prozia. Eravamo tutti impazienti di fargli incontrare il fratellino.
Morivo dalla voglia di vedere che faccia avrebbe fatto e mi aspettavo chissà quale reazione.
Invece, a quanto pareva, per tanto che glielo spiegassimo, il piccolino non aveva idea di cosa fosse un fratello, ne’ tanto meno gli interessava quello strano animale con cui i genitori volevano farlo giocare.
In effetti, era molto più interessato ai toast che la mamma stava sgranocchiando, e ci sarebbe voluto qualche mese prima che realizzasse che no, Harvey non era un altro gatto per far compagnia al nostro.
Alla fine i medici annotarono la storia della quarta vena nei registri medici del neonato e poi ci diedero il via libera.
Salimmo in auto, in quattro. L’aria fresca entrava dai finestrini e la musica allegra della radio si abbinava ai 36 denti in esposizione sul mio volto.
Due meravigliosi trofei sedevano nei rispettivi seggiolini affianco a me ed io mi sentivo la donna più ricca del pianeta!
La mattina dopo misi da parte la stanchezza e ripresi in mano la macchina fotografica: a quel punto partiva ufficialmente il mio progetto e nulla e nessuno mi avrebbe fermata.
Chiesi al mio corpo di rimarginarsi in fretta e il mio corpo mi obbedì.
L’anca traditrice si rese subito conto che i tempi dei lavori forzati erano finiti e mi chiese scusa. Poi mi chiese ancora un po’ di paracetamolo e tornò al mio servizio.
Avevo un patto con il mio ragazzo che qualsiasi fossero state le mie condizioni fisiche dopo il parto, per due settimane, si sarebbe occupato lui della casa e di cucinare. Io dovevo occuparmi d’altro.
Fu così che, a distanza di sole ventiquattr’ore dal suo primo respiro, il piccolo Harvey stava già posando, per la prima volta, di fronte alla macchina fotografica!
Due settimane, quattordici giorni: l’arco di tempo in cui un neonato dorme così profondamente che può essere posato senza svegliarsi. E dio solo sa se non ho sfruttato ogni secondo di quell’irrinunciabile occasione. Per imparare, per allenarmi, e anche per mettere da parte i più unici e più preziosi ricordi di una vita intera fin dai suoi primissimi istanti.