10 Gen Un inizio in medias res
La gravidanza, tutto sommato, era andata molto bene: superati i primi tre mesi di nausee a tempo pieno, tutto il resto era stato in discesa.
Certo, l’ultimo mese avevo parecchio rallentato il ritmo, cosa che mi infastidiva non poco. Allora ancora pensavo che, una volta nato il bambino, avrei potuto riprendere a far mille cose al secondo, come al solito. Inutile dire che mi sbagliavo… e di tanto!
E così Cinzia, la mia adorata sorellina, con partner al seguito, aveva deciso di venire a stare da me un mesetto per darmi una mano qua e là tra la fine della gravidanza e l’inizio della nuova vita da mamma. Natale cadeva giusto nel mezzo.
La mattina del 25 mi trovai di fronte alla più bella sorpresa che il mio bambino interiore potesse sognarsi: un albero di Natale disegnato e ritagliato nel cartoncino circondato da un generoso numero di pacchetti colorati e decorazioni varie: che spettacolo!
I regali spaziavano tra le tutine per il neo nipotino, le mie amate olive taggiasche e un set di lenzuola ricamate che arrivava direttamente dall’Australia.
Ricordo con piacere le due settimane successive in cui ci dedicammo a raccontarci tutti i dettagli dei mesi passati lontani, a riorganizzare la casa e a cucinare leccornie all’italiana.
La mattina del 10 gennaio avevo l’ultima visita di controllo dall’ostetrica che mi confermò quanto sospettavo: le mie improvvise difficoltà a camminare dipendevano dalla discesa della testa del bimbo nel collo dell’utero. Nathan era in posizione, pronto per il gran momento.
Pronto sì, ma secondo lei c’era tempo. Il primo, si sa, è facile che arrivi in ritardo e mancavano ancora due settimane.
Inoltre, la dottoressa mi aveva avvisata che probabilmente gli ultimi giorni avrei avvertito delle contrazioni preparatorie. Avrebbero fatto un po’ male, ma sarebbero passate in fretta. Quando fossero arrivate quelle giuste le avrei senza dubbio riconosciute. Fino a quel momento non avevo ancora sentito nessun dolore sospetto.
Uscii dalla visita preparata a prendermela con tutta calma. Peccato che Nathan aveva altri programmi.
Avevamo in mente di approfittare della vacanza per scattare un servizio fotografico a mia sorella e, stando al meteo, l’undici sarebbe stata la mattinata ideale.
Lo avevamo studiato nei minimi dettagli: lei era già arrivata con il guardaroba selezionato in valigia, poi avevamo acquistato dalle mie parti un paio di scarpe e tantissimi oggetti di scena da abbinare ai vari cambi. Avevamo trovato la location perfetta, il trucco perfetto, organizzato il trasporto e il pranzo, caricato la batteria della macchina fotografica, provveduto alla messa in piega e riempito innumerevoli borsoni con mascherine veneziane, mazzi di fiori, pavoni, farfalle e candelabri.
Peccato però che, come dicevo, Nathan aveva altri programmi.
Alle 8 di sera eravamo da Hobbycraft per procurarci gli ultimi due nastri di velluto che avrebbero completato il mazzo di fiori.
C’è sempre una buona scusa per fare un salto da Hobbycraft: è il paradiso degli artisti. Ci puoi trovare materiali di tutti i tipi: colori e oggetti decorativi, fiori, stoffe, nastri e qualsiasi cosa che una mente in cerca d’ispirazione possa desiderare.
Di solito: «Passo due minuti da Hobbycraft.» Significa: «Trovati qualcosa da fare: ci vediamo tra tre ore.» Ma quella sera non mi sentivo troppo bene e, trovato il nastro, dovetti rassegnarmi a tornare a casa senza nemmeno dare un’occhiata ai nuovi arrivi.
«Sarà stanchezza.» pensai. Una bella cena e una puntata delle “Casalinghe disperate” mi avrebbero sicuramente rimessa in sesto. Ma né la deliziosa zuppa di arachidi, ne’ il telefilm riuscirono a distrarmi dal fatto che questa stanchezza stava cominciando a fare male.
Ipotizzai che fossero le contrazioni preparatorie di cui mi aveva parlato l’ostetrica. Mentre aspettavo che passassero, chiesi a mia sorella di portarmi il mazzo di fiori da decorare, nel tentativo di distrarmi.
Lei che mi conosce molto bene e sa che non basta la fine del mondo a farmi rimandare un servizio fotografico, mi guardò negli occhi e mi chiese se ero proprio convinta di voler scattare l’indomani mattina. «Si si, certo, vedrai che tra due minuti passa, vado a sdraiarmi un attimo e mi riprendo.»
21.30. Resistetti, a dire tanto, dieci minuti sdraiata nel letto. Poi capii che quelle contrazioni preparatorie non avevano nessuna intenzione di andarsene, anzi, stavano peggiorando ad una velocità preoccupante.
Chiesi aiuto. Gli altri tre in salotto guardavano ancora la puntata in televisione e non mi sentivano.
Un’ ulteriore contrazione, peggiore della precedente, mi convinse a gridare: «Aiuto!!»
Mia sorella e il mio ragazzo si precipitarono per trovarmi aggrappata alla sponda del letto, in un bagno di sudore.
Non avevo ancora capito che mio figlio sarebbe nato quella notte, ma almeno avevo realizzato che non avrei scattato un bel niente il giorno dopo.
Mi chiesero se pensavo fosse ora di andare in ospedale. Dissi che non ne avevo idea, ma forse era il caso di andarci a prescindere, almeno per un controllo.
È buona norma preparare la borsa per l’ospedale almeno due settimane in anticipo, così, quand’è il momento, non c’è nient’altro a cui pensare.
Noi eravamo talmente convinti di averle ancora tutte, quelle due settimane, che non ce n’eravamo ancora occupati.
Mentre il mio compagno raccattava freneticamente tutto quello che più o meno gli sembrava servisse per l’ospedale, io feci un salto al bagno, prima di uscire.
Sangue: «Cazzo!!»
La vista del sangue nel w.c. mi svegliò come una botta in testa. Improvvisamente realizzai non solo che sarei diventata mamma quella notte stessa, ma anche che era il caso di darsi una mossa e raggiungere l’ospedale al più presto.
Mia sorella era nel panico. Non se l’aspettava e lei è il genere di persona che si prepara molto bene per qualsiasi cosa.
Io ero divisa in due: una parte di me, totalmente distaccata, osservava la scena dall’esterno con curiosità ed eccitazione; l’altra non stava per niente bene e veniva brutalmente ri-fiondata nella realtà del dolore fisico ad ogni contrazione.
Attesi la fine dell’ultima frustata sullo stomaco e poi giù dalle scale di corsa, tenendomi al corrimano per non perdere l’equilibrio.
Ebbi giusto il tempo di raggiungere la soglia della porta prima di rimanere nuovamente senza fiato. Un paio di lacrime, poi ritornò il sorriso.
In fondo ero molto felice, anche se un pochino preoccupata, lo ammetto, per quei quindici minuti di strada che ci separavano dall’ospedale. Ormai era chiaro che presto, molto presto, avrei finalmente incontrato mio figlio: wow!
Le contrazioni, nel giro di niente, si erano moltiplicate e duravano anche più a lungo.
Non eravamo sicuri fosse saggio avventurarci nel viaggio in macchina, così chiamammo l’emergenza per un consulto. Dall’altra parte del telefono ci chiesero di cronometrare le contrazioni: non passava neanche un minuto tra l’una e l’altra. Ci dissero assolutamente di non muoverci da casa. Avrei dovuto sdraiarmi a letto e attendere. Entro un’ora sarebbe arrivata un’ ambulanza.
Un’ora??! Non ricordo esattamente quali parolacce furono destinate al ragazzo del call center prima di riagganciare e un attimo dopo eravamo in strada.
Andavamo veloce: era tutto ciò che ero in grado di registrare. Si era alzato un sipario tra me e quello che accadeva attorno.
Comunicare era impossibile: ormai il dolore non mi dava più sufficienti occasioni per respirare, figuriamoci per parlare. Però da un certo momento in poi avevo preso ad urlare: uno, due, tre respiri, affannosamente e poi: «Aaaah!» e di nuovo e di nuovo.
Mia sorella era fuori di se. Ricordo che continuava a ripetere di volerci arrivare viva all’ospedale, il suo ragazzo cercava di calmarla, il mio cercava di tenere tutta l’attenzione sulla strada.
Mi chiedevano se ce la potevo fare fino all’arrivo: non lo sapevo e, con tutta la buona volontà, non riuscivo a rispondere.
Poi, improvvisamente, mi stappai come uno Champagne: splash! Un esplosione fortissima di acqua tra le gambe. Le mie viscere rimbalzarono all’ indietro per il contraccolpo. Dopo di che mi raggiunse il panico: sentivo chiaramente che la testa stava scendendo.
Detestavo il sedile che mi costringeva a star seduta, mentre ogni fibra del mio corpo mi chiedeva di distendermi. Volevo gridare al mio partner di fermare l’auto, ma non riuscivo a parlare. Non me ne importava meno di niente che non ci fosse un dottore presente, il mio bambino voleva nascere: subito!
Tanta era la foga di sdraiarmi che sollevai il sedere dal sedile e mi spinsi all’indietro con tutte le mie forze.
Rimasi un paio di minuti sospesa in obliquo, guardando il soffitto dell’auto, con tutto il corpo teso e la testa e le spalle incastrate in mezzo ai due sedili anteriori. Nel frattempo il mio compagno frenava davanti all’ entrata del pronto soccorso e il ragazzo di mia sorella correva a chiamare aiuto.
Appena fermata l’auto mi buttai sdraiata con la testa sul sedile del guidatore, la schiena a mezz’aria tra un sedile e l’altro e le gambe fuori dalla porta.
Afferrai il volante con una mano e il sedile con l’altra e presi a spingere e gridare come se non ci fosse un domani.
Rimasi sola qualche istante, mentre gli altri tre vandali prendevano a calci e pugni la porta serrata dell’ospedale gridando: «Aiuto!» con tutta l’aria che avevano nei polmoni.
Nel giro di niente arrivò correndo un’ infermiera che tirò fuori dei fogli e cominciò a farmi domande: «Quanti anni hai?». «Ventisei». «Di che gruppo sanguigno sei?». «Zero positivo». «Come ti chiami?». «Tizia…Ah…Aaaaaaaaaah!!!»
Altre quattro o cinque persone in camice arrivarono con una barella, ma la prima aveva chiaramente capito che non c’era tempo: sarebbe nato in macchina. Nel parcheggio.
Mi tagliarono via i pantaloni. Non ci fu bisogno di misurare la dilatazione: si vedevano i capelli del piccolo.
Coprirono i vetri dell’auto con dei teli e mi chiesero di respirare profondamente e spingere.
Le ultime dieci contrazioni si susseguirono ritmicamente, senza tregua e senza pietà: il dolore peggiore che io abbia mai provato.
Sulle note nel libretto per l’ospedale avevo scritto che desideravo far nascere il bambino in acqua e che autorizzavo i medici ad utilizzare qualsiasi tipo antidolorifico, se necessario: dalla mascherina con l’ossigeno all’epidurale.
Invece mi trovavo in un parcheggio, di notte, all’addiaccio londinese del 10 gennaio, a partorire “al naturale”, come una fottuitissima foca monaca spiaggiata al Polo Nord!
Cercavo di controllarmi, ma respiravo troppo affannosamente e avevo i capogiri. Una parte di me sperava di svenire.
Poi mi informarono che la testa era fuori e che stava per arrivare l’ultima contrazione. Io piangevo e supplicavo di no, per favore noooo!
Mia sorella, che non desiderava essere ulteriormente traumatizzata, si era spostata un isolato più in là.
Pur non essendo presente sulla scena, alle 22:55 l’intensità del mio ultimo urlo le suggerì che in quel momento era diventata zia.
Il pianto di Nathan un secondo dopo tolse ogni dubbio.
Mi appoggiarono addosso questo fagotto biancastro, peloso e bagnato, tutto spettinato, con la pelle grinzosa, la testa deformata dalla pressione del parto e gli occhi ancora incollati. Non so come, ma a me sembrava bellissimo.
Lo salutai e gli offrii il mio seno. Si attaccò immediatamente e, così come previsto dal miracolo della natura, senza bisogno di alcuna istruzione, cominciò a succhiare.
Ero mamma, ufficialmente. E mi sentivo al settimo cielo.
Non avevo avuto il tempo di fare previsioni su come sarebbe stata l’esperienza di dare la vita. Mi sorpresi di quanta gioia mi pervase nel momento in cui abbracciai il mio piccolo per la prima volta.
L’avevo cresciuto in grembo per nove lunghi mesi e ora era lì di fronte a me e respirava indipendentemente, si muoveva, stava bene: mi sembrava assolutamente incredibile!
Chiesero al neo papà se voleva avere l’onore di tagliare il cordone ombelicale.
Quando la forbice addentò il collegamento tra me e il bambino, un fenomenale schizzo di sangue partì dall’incisione e colorò di rosso l’intero parabrezza.
L’auto a quel punto era un completo disastro: i sedili anteriori erano maleodoranti e inzuppati di una varietà di liquidi non più identificabili. Il volante era stato strattonato con violenza più volte, ma incredibilmente non si era rotto, almeno così pareva. Infine, una bella spruzzata di sangue qua e là aveva completato l’opera.
I medici avvolsero il piccolino in una coperta e lo portarono in salvo al calduccio della sala parto. Poi coprirono anche me con delle lenzuola e mi aiutarono a sdraiarmi su una barella.
Stavo benissimo. Anzi, stavo molto meglio dei giorni precedenti. Certo, ero ancora un po’ dolorante, ma mi sentivo leggera e ringiovanita: avevo dimenticato quanto fosse facile, normalmente, muoversi.
Abbracciai mia sorella e il mio ragazzo. Non vedevo l’ora di chiamare i miei genitori per svegliarli con la bella notizia. Mia mamma non se l’aspettava così presto ed era contentissima che tutto fosse andato per il meglio.
Dopo gli auguri e le congratulazioni venne l’ora dei controlli di routine.
Mentre misuravano e pesavano Nathan, notai che i suoi piedini sembravano incredibilmente lunghi.
Chiesi al dottore se fosse normale: la lunghezza della pianta del piede eguagliava la lunghezza della gamba dal ginocchio alla caviglia.
Fui rassicurata: «Sicuramente il piccolo ha una predisposizione per il gioco del calcio, ma presto il resto del corpo crescerà recuperando la proporzione con i piedoni.» Tutto bene allora!
Tutti gli indici di salute sia miei che del bambino erano ai migliori livelli. Non avevo bisogno di punti. Potevamo tornare a casa quella notte stessa.
Mi fecero un’iniezione per facilitare l’uscita della placenta e un minutino dopo una leggera contrazione mi portò ad espellere questo Alien liscio, lucido e pieno di capillari, dove si attaccava l’altra metà del cordone ombelicale.
Che strana! Non ne avevo mai vista una prima, me l’aspettavo più piccola. Quell’affare era rimasto incollato al mio utero tutto il tempo aiutandomi a nutrire mio figlio senza nemmeno il bisogno che me ne rendessi conto.
Tra me e me ringraziai e dissi addio a quello strano pezzetto di me che ormai non mi serviva più.
Mi girava ancora la testa, chiesi se ci fosse qualcosa da mangiare per recuperare un po’ di energie. Mi offrirono un tè con lo zucchero. «Quanti cucchiaini?» «Dieci grazie». Il tè più dolce della mia vita.
Il mio compagno prese in prestito un rotolo di carta assorbente e andò a dare una sistemata all’auto. Nel frattempo mia sorella mi aiutò a farmi una doccia.
Una volta vestito il bambolotto con la sua prima tutina lo sistemammo in auto nell’ovetto e, con molta più calma dell’andata, ci avviammo a casa.
Nessuno dormì quella notte, tranne me e il bambino. Per l’ultima volta nei quattro anni che seguirono mi feci una meritata scorpacciata di dieci grasse ore di sonno.
Partorire è una bella sfacchinata e comporta anche dei rischi: pensavo che la parte peggiore dell’avventura fosse passata: ero ancora molto ignorante e ingenua in fatto di maternità. Non avevo idea che il lavoro vero sarebbe cominciato l’indomani, ma questa è un’ altra storia!
Mia sorella si sarebbe fermata da noi ancora un paio di settimane e il mio compagno era a casa dal lavoro in paternità. Questo significava che per quel breve periodo ero sollevata dalla maggior parte dei lavori domestici e potevo occuparmi esclusivamente del nuovo arrivato. Inoltre, per il momento, almeno di giorno, Nathan dormiva tanto.
Ricordo che perdevo un sacco di tempo a guardarlo. Pensavo genuinamente che fosse il bambino più bello che avessi mai visto e ben presto nacque in me il desiderio di fotografarlo.
Non avevo mai fotografato bambini prima d’ora, tanto meno neonati, e non ero molto informata in materia. Così approfittai della fortunata circostanza per investire del tempo a studiare l’arte della newborn photography.
Scoprii che in determinate condizioni, durante le prime due settimane di vita, è possibile sfruttare il sonno profondo dei bambini per metterli in posa, senza svegliarli.
Per un breve periodo i loro corpicini, ancora abituati a rannicchiarsi come nella pancia, sono molto flessibili. Questo permette di “modellarli” senza disturbare il loro sonno.
Non è facile: mi era chiaro che sarebbe servito molto allenamento per imparare i movimenti giusti, ma un tentativo volevo farlo comunque.
Mi informai molto bene di tutte le norme di sicurezza necessarie per posare un neonato. Bisogna rendersi conto che il corpo nei primi giorni di vita è flessibile, ma è anche molto delicato. A quell’età i bambini non sono ancora in grado di sorreggere da soli la propria testa quindi è indispensabile assicurarsi che sia supportata in ogni posa, durante tutta la sessione fotografica.
Scoprii tutto un mondo di cestini e coperte all’uncinetto e bodini e cappellini di lana che potevano servire ad arricchire le fotografie più tenere di tutti i tempi.
Più mi documentavo, più mi innamoravo di questo genere fotografico e non vedevo l’ora di fare un esperimento.
Il 21 gennaio, a 11 giorni dalla nascita di Nathan, mi sentivo abbastanza preparata per fare una prova.
Scaldai la stanza da letto fino a 29 gradi, come consigliato dal corso che stavo seguendo. Questo perché i neonati hanno difficoltà a regolare la propria temperatura corporea e se non sono completamente vestiti, o avvolti nelle coperte, serve una stanza calda come una sauna perché si sentano comodi.
Stesi un telo soffice color crema e lo pinzai alla sponda del letto con dei mollettoni: quello sarebbe stato il mio sfondo. Posizionai il letto di fronte alla finestra: volevo riprendere il soggetto in controluce. Mi ero procurata un cappellino color panna con un bel pom pom in cima e un cuore di vimini bianco come oggetto di scena.
Non avevo gran che e soprattutto i miei movimenti per posare il piccolo erano tutt’altro che rifiniti, così ci misi due ore per ottenere giusto un paio di pose e Nathan si svegliò parecchie volte durante la sessione.
Come ogni prima volta, si fanno tanti tentativi e solo pochi riescono bene, ma sono comunque felicissima di averci messo tutto l’impegno necessario e di poter conservare almeno una manciata di quelle fotografie.
In quel momento c’erano così tante altre priorità che i ricordi tendevano a passare in secondo piano, eppure, ad oggi, questi pochi ritratti del mio bambino nei suoi primissimi giorni di vita, siedono in cima alla classifica delle cose più preziose che posseggo.