Una storia da raccontare

  “A Trana c’era tanta erba da sfamare duecento greggi e tanto tempo che buttarne la metà non sarebbe stato uno spreco, ma non c’era, nemmeno a pagarla oro, una dannata storia da raccontare.” Trana è un bel paesino che sorge ai piedi dei monti nella valle del torrente Sangone. In effetti, adesso penso che sia un bel paesino, ma a suo tempo mi sembrava il posto ideale dove morire di noia. Noi abitavamo appena al di sotto del minuscolo centro storico, in una casetta a due piani affacciata sul corso d’acqua.  La ridicola dimensione del centro consisteva in uno stradone a doppia corsia che, scendendo dalle montagne, salutava una ventina di palazzi per poi svignarsela sopra al grande ponte del Sangone, verso il paesello successivo. Tutto qui.  Tutti conoscevano tutti, non succedeva mai un tubo di niente e questo rappresentava per me un bel problema. A suo tempo soffrivo di una paralizzante forma di timidezza. Detestavo la mia incapacità di comportarmi come un animale sociale degno di questo nome. I miei compagni avevano sempre qualcosa da dire e da quando si resero conto conto che, da me, “qualcosa da dire” non sarebbe mai uscito, smisero di rivolgermi la parola, se non per prendermi in giro. La verità, contrariamente alle apparenze, era che io desideravo socializzare, ma l’idea di prendere l’iniziativa e aprire la bocca per prima, mi faceva tremare le gambe.  E allora sognavo di spaccarmele quelle stupide gambe! Giuro, speravo di finire sulla sedia a rotelle. Perché una sedia a rotelle si nota di più di una ragazzina esile e silenziosa, sempre seduta in ultima fila, ricurva sui libri di testo. Mi chiedevo da dove le prendessero gli altri tutte quelle parole. Come potevano avere sempre un aneddoto o una battuta per qualsiasi situazione? A me sembrava incredibile: doveva per forza esserci un trucco!  Chissà, forse nascondevano sotto i vestiti una pratica borsetta, carica di storie interessanti, da cui pescare liberamente, all’occorrenza. Ah, come mi sarebbe piaciuto possedere una tracolla del genere!  Peccato che nel mio paesino sperduto l’articolo non fosse in commercio. A Trana c’era tanta erba da sfamare duecento greggi e tanto tempo che buttarne la metà non sarebbe stato uno spreco, ma non c’era, nemmeno a pagarla oro, una dannata storia da raccontare. Quella settimana poi, fu particolarmente noiosa.  Non potei neanche uscire a giocare in cortile perché il cielo, che non era fesso, si accorse di quanta tristezza mi portavo dentro. Mi disse: «Se non ti decidi a farlo tu, allora piangerò io al tuo posto.» Così, detto e fatto cominciò a piovere e non la smise più.  Piansero per prime le nuvole, poi si unirono i tetti e le grondaie e poi le piante. Tutto quanto si impregnò, un po’ alla volta, di quelle lacrime che io non avevo il coraggio di tirare fuori. Un sabato sera i miei zii paterni ci invitarono a cena. Li vedevamo raramente perché abitavano piuttosto lontani, ma quella volta avevamo tutti voglia di una serata che contrastasse con la solita monotonia. Finì che rincasammo particolarmente tardi, sia perché il tempo scivola via come niente quando ti diverti, sia perché procedemmo a rilento lungo la via del ritorno: diluviava così brutalmente che i tergicristalli proprio non riuscivano a tenere il ritmo. Erano le 3.30 quando mi infilai sotto al piumone a pancia piena e cuore pieno. Poco dopo, il suono del mio sazio ronfare andò a contribuire, con qualche nota nuova, all’onnipresente sinfonia dell’acquazzone che picchiava sulle tegole. Quando mi svegliai stavo congelando. Mia mamma aveva l’odiosa abitudine di spalancare tutte le imposte per cambiare l’aria di prima mattina. Diciamo che destarmi ogni giorno dentro all’incubo della mia adolescenza problematica non mi faceva cantare di gioia. Quando poi la giornata iniziava al Polo Nord, la mia voglia di vivere scendeva sotto zero insieme con la temperatura! Per lo meno, la domenica, mi era concesso di alzarmi più tardi del solito, specialmente quando il sabato sera era sconfinato nelle ore piccole. Eppure quella volta il freddo mi scosse che era ancora così buio da sembrare notte fonda. I’orologio-sveglia sul comodino mi confermò che erano da poco passate le cinque. «Che diavolo ci fa la porta del balcone aperta a quest’ora?!» mi chiesi ancora in dormiveglia.  Costrinsi i miei piedi ad avventurarsi sul pavimento ghiacciato per serrare nervosamente la fonte del mio fastidio. Poi brancolai nel buio cercando un golf da indossare prima di rituffarmi nei miei dolci sogni.  Invece, inaspettatamente, tuffai un piede dentro una spiacevole pozzetta d’acqua. Pensai che si fosse di nuovo rotta la lavatrice e decisi di avvisare i miei genitori. Con un briciolo di frustrazione rimandai ulteriormente il mio anelato ritorno alla terra di Morfeo e mi trascinai nella camera adiacente.  A questo punto la frustrazione cedette il posto ad una sorta di confusione stremata dal sonno, quando in camera da letto non trovai chi cercavo.  Il loro letto era vuoto e anche la loro porta del balcone si spalancava sul rigore di metà ottobre. Incredula mi avvicinai con l’intenzione di risolvere per la seconda volta il problema.  «Quante stranezze!». Notai tra me e me. Cominciavo a chiedermi se non fossi semplicemente ancora dentro un sogno, ma quando buttai lo sguardo al di là dei vetri ogni dubbio scomparve. Tutto il torpore che pesava sulle mie palpebre si dileguò in un istante e i miei occhi e la mia bocca si spalancarono di fronte allo spettacolo apocalittico che mi stava davanti.  Per una buona manciata di secondi mi dimenticai di respirare, poi mossi un passo sul balcone. In quel preciso istante un’ondata violenta scaraventò la carcassa di un’automobile contro la fiancata del ponte. Faceva freddo, ma non era per quello che avevo la pelle d’oca.  L’avevo chiesto non è vero? E adesso era lì, dinanzi a me, più reale che mai: era arrivata la mia storia da raccontare. Casa mia era un biscotto inzuppato in una sconfinata tazza di tè nero che aveva preso il posto del cortile.  La violenza con cui il vento piegava gli alberi si abbinava all’impeto della corrente che fagocitava qualsiasi cosa osasse mettersi sulla sua via. Al di la di quella che prima era una strada gli argini erano stati sommersi e non era rimasto più nulla a separarci dalla furia di madre natura. Trangugiai in unica sorsata il mio cocktail fatto di gelo, di shock e di irresponsabile eccitazione, poi rientrai battendo i denti alla ricerca dei miei genitori.  Li ritrovai al fondo delle scale, immersi fino alla vita nell’insolito arredamento di un salotto galleggiante. «Mamma, papà…» «Fa’ attenzione tesoro, i gradini sono scivolosi.» Mi avvertirono premurosi, mentre loro arrancavano nell’acqua ghiacciata, cercando di recuperare una piccola parte di una vita di lavoro.  La piscina arrivava all’altezza delle finestre. Il tavolo, le sedie e la televisione giocavano a battaglia navale insieme ai miei giocattoli di plastica.  La libreria si era ribaltata e due o tre volumi traghettavano per l’ultima volta i loro racconti alla deriva, prima di annegare in quel fango che li avrebbe resi illeggibili.  L’unico articolo sensato in mezzo a quel caos era la bellissima nave di legno costruita a mano, pezzo per pezzo, da mio nonno, come regalo di nozze per i miei. La vedevo riflettersi soddisfatta sulla superficie dell’acqua, protetta dalla sua teca di vetro, sì, ma pur sempre fieramente immersa, per la prima volta, nel suo elemento naturale. Tornai sul balcone per guardarmi intorno e assorbire ogni dettaglio della straordinaria avventura che stavo vivendo. Sapevo che me la sarei portata dentro per sempre e sentivo che in qualche modo mi avrebbe aiutata a crescere. Quel concerto che era cominciato quietamente, aveva ormai raggiunto i toni epici degni di un Beethoven.  Adesso i lunghi fischi del vento dirigevano il ritmico sbattere delle imposte. L’eco lontana delle sirene dei soccorsi e il miagolare impaurito dei gatti facevano da sottofondo all’inusuale vociare notturno della gente sui balconi. Anche gli antifurti delle auto partecipavano alla pazzia di quel coro, suonando il loro straziante addio, prima di arrendersi all’inevitabile vittoria del liquido sui meccanismi elettronici. Le luci dei fanali si affievolirono fino a spegnersi e le tre auto parcheggiate nel nostro cortile fecero la triste fine del Titanic. Poi la sinfonia fu bruscamente interrotta dal tuonare di un altoparlante: «Per favore mantenete la calma, stiamo venendo a prendervi!». Erano i vigili del fuoco e ci invitavano a prepararci per la fuga. Riempimmo un borsone con dei cambi e delle coperte. Poi ci radunammo sul balcone insieme ai vicini di casa, per aspettare la salvezza stretti gli uni agli altri, come una nidiata di pulcini sorpresi dal temporale.  Poco più tardi due gommoni si affacciarono sul nostro cortile, dopo aver scardinato il cancello per poter entrare.  Ci presero in braccio, uno alla volta e nell’arco di dieci minuti ci ritrovammo tutti quanti a Venezia per fare un giro turistico sui canali. Mi sembrò incredibilmente strano uscire dal cancello di casa, a colpi di remi. Una volta scampato il pericolo, una parte di me cominciò a gioire dell’accaduto, anche se non osavo dirlo. Era una parte di me molto incosciente che non si rendeva conto di cosa non fosse, per i miei genitori, un tale sgambetto da parte del destino. Bramavo un nuovo inizio e un profondo cambiamento nella mia vita. Lo volevo così tanto che mi sarei accontentata di qualsiasi tipo di cambiamento e non vedevo come questo potesse mancare di esserlo. Avevo scorto il potenziale rivoluzionario al di là della catastrofe.  Perdere la casa, perdere tantissimi soldi, dover affrontare anni e anni di ristrettezze economiche, non sembrava una prospettiva piacevole, ma forse da lì, in qualche modo, avrei potuto ricominciare. Forse avrei potuto rafforzarmi. Ci vollero altri 10 anni, ma alla fine, in effetti, fu proprio così.  Questa storia da raccontare però finisce qui, tutto il resto, nelle prossime puntate. 😉