Temporale

Inciampai.

 

Le arance si rovesciarono sull’asfalto e presero a rotolare e scontrarsi come tante palline gettate su un tavolo da biliardo.

 

Mi morsi il labbro. Nervosamente.

 

La mia gonna plissettata si era strappata all’altezza del ginocchio e sotto all’apertura del tessuto una piccola sbucciatura cominciava a bagnarsi di rosso.  

 

Lasciai metà delle arance là dove erano atterrate e mi chiusi rapidamente dentro alla mia auto.

 

Una, due, tre goccioline di acqua calda e salata approfittarono del bruciore al ginocchio per darsi il permesso di sgusciare fuori dai miei occhi.

 

– “Che palle!” – Non era la prima volta che inciampavo in me stessa quel giorno. Stava andando tutto storto e non riuscivo ad accettarlo…

 

Era il primo giorno di scuola di Nathan. Il suo primo giorno, della prima elementare ed ero riuscita a portarlo a scuola in ritardo.

 

Sapevo quanto fosse importante per lui. Non avevo dormito per la tensione e mi ero alzata molto prima del necessario…

Quella mattina stavo mettendo le calze al fratellino di Nathan, mentre ancora dormiva, quando mi accorsi che il caffè straripava abbandonato sul fornello. Corsi in cucina per spegnerlo ed intanto infilai un paio di fette nel tostapane. 

 

– “Nathan e Harvey! Buongiorno!” – Tirai su le serrande perché la luce del giorno mi aiutasse a convincerli che era ora di darsi da fare.

 

– “La colazione è sul tavolo! Oggi si va a scuola, coraggio! Harvey sei andato a fare la pipì? Nath il portapenne…tieni, rimettilo dentro allo zaino.” 

 

Dirigevo ed incoraggiavo (forse quasi incalzavo) i miei due piccoli soldatini come farebbe un generale in preparazione per la battaglia. 

 

Ad un certo punto realizzai che avevamo tutti mangiato e lavato i denti, ma erano soltanto le 8.30. 

 

– “Possiamo giocare un po’ adesso mamma?” 

 

In segreteria mi avevano indicato le 9.30 come orario di incontro del primo giorno perciò dovetti acconsentire alla loro richiesta.

 

Tuttavia, dopo un paio di giri in pista con le macchinine e due o tre modifiche all’ultima costruzione coi Lego, uscimmo per sicurezza, con quasi mezz’ora di anticipo.

 

– “Su forza, siamo in ritardo!” – Dichiarai preventiva, anche se non era per niente vero.

 

– “Allacciate da soli la cintura, io comincio ad uscire dal parcheggio.” 

Sentivo un senso di urgenza ed irrequietezza  che mi spingeva  a premere sull’acceleratore quando in realtà non ce n’era alcun bisogno. 

 

Navigavo sulla strada, immersa in un pantano melmoso di pensieri: i ricordi della mia pessima esperienza sui banchi di scuola si mischiavano alla paura di non essere all’altezza di guidare mio figlio nel suo percorso. 

Dove si era perso il generale codardo? Tergiversava confuso, mezzo rivolto verso un passato deludente e mezzo proiettato verso un futuro preoccupante: non era presente all’adesso, nell’unico posto dove ha senso combattere.

 

Poi, qualcuno mi tagliò la strada al bivio. Con grande spavento tornai di colpo sulla Terra, giusto in tempo per sterzare e schivare l’auto di un incosciente che andava di fretta ancora più di me. Una serie di clacson al mio seguito mi costrinsero ad imboccare casualmente una delle due strade possibili. 

 

Freccia a destra. Doppia fila. Luci di emergenza. – “Mamma perché ci siamo fermati?”

 

La scarica di adrenalina aveva alzato di un’ottava la mia tensione. – “Perché devo mettere il navigatore…Perché quel deficiente…Niente, ho sbagliato strada.” 

 

– “Allora non andiamo più a scuola?” – “Sì Nathan che andiamo! Guarda, vuoi darmi una mano? Ecco, fai silenzio un attimo!” – “Ma mamma, scusa, io non volevo…”

Ed eccola lì, prontamente: provai quella sensazione avvilente a me piuttosto familiare, una specie di contrazione all’altezza del diaframma che mi segnalava disapprovazione nei confronti di me stessa. 

 

– “Che cavolo mi salta in mente adesso?!  Perché me la sono presa con lui, poverino? Proprio oggi poi!” – Sospirai accigliata e poi ripresi a guidare. – “Scusami Nathan, non è colpa tua, sono solo un po’ nervosa…”

Ore 9.20. Le pareti giallo canarino della nuova scuola si affacciavano direttamente sulla piazza del mercato. Parcheggiai affianco ad un banco di frutta e verdura, di fronte all’ampia cancellata dell’edificio. 

 

– “Mamma compriamo le arance per fare la spremuta?” – “Amore te le prendo dopo, adesso andiamo a scuola.” – “Uff, tanto lo so che poi te ne dimentichi.” – Dichiarò Nathan pessimista. 

Sbirciai al di là del tendone del banco frutta: nessun genitore con bambini attendeva vicino all’ingresso ancora chiuso. –  “Strano.” – Pensai. In effetti mancavano ancora dieci minuti. – “D’accordo compriamo le arance.” – Mi sforzai di raddrizzare il tiro dimostrando un po’ di affetto in questo modo.

Terminato l’acquisto attraversammo la strada. Ancora nessuno nelle vicinanze. Cominciai a preoccuparmi e controllai nuovamente l’ora: mancavano cinque minuti. 

 

Ripensai a quando ero passata in segreteria per chiedere quale sezione fosse stata assegnata a Nathan e quale fosse l’orario di apertura del primo giorno.

 

Alla riunione mi era stato detto che avrei trovato le informazioni appese in bacheca, ma, a quanto pareva, non tutti gli elenchi erano ancora stati esposti. Non trovando il nome di mio figlio in lista avevo dunque chiesto aiuto alla receptionist della segreteria e lei si era gentilmente prodigata a cercarlo sul database del computer.

 

– “Si deve presentare alle 9.30 davanti all’ingresso sul cortile principale. La classe è la prima B.” – Aveva affermato, e lo ricordavo con chiarezza.

 

Ma poi aveva aggiunto: – “Ufficializzeremo tutto sul sito della scuola entro domani sera. Verifichi poi da là, così può evitare di tornare a controllare le affissioni in bacheca.”

 

Non l’avevo fatto. Aveva ragione Nathan a sostenere che sono smemorata. 

Una volta individuato dove poteva stare il problema mi precipitai a suonare il campanello. 

 

– “Chi è?” – “Sono la mamma di Nathan. Nathan Mensah, prima B. Posso entrare? Credo di essere in ritardo.” – Balbettai qualcos’altro in mia discolpa e mi fu risposto che avrebbero mandato il maestro a prendere il bambino.

 

– “Che succede mamma? Adesso il maestro mi sgrida?” – Guardai gli occhioni un po’ spaesati di Nathan attraverso un velo umido di senso di colpa e inadeguatezza. – “No tesoro, non preoccuparti.” – Non fui capace di aggiungere qualcosa che suonasse maggiormente rassicurante.

 

Poi il maestro si presentò nella sua larga e severa stazza, tutto vestito di nero, dall’occhiale al mocassino. – “Signora l’entrata era alle nove. Sono le nove e trenta.” – Mi squadrò con disapprovazione prima di sottolineare l’importanza della puntualità d’ora in avanti.

 

– “Mi scusi.” – Replicai avvilita e fu il massimo che riuscii a cavar fuori dal groppo che avevo in gola. Nathan intanto aveva abbassato lo sguardo. 

Girai i tacchi in pietosa ritirata, senza nemmeno salutarlo, per l’imbarazzo e la fretta di nascondermi.

 

Attraversai la strada diretta verso il parcheggio, ma la mia vista annebbiata mi impedì di notare un dissestamento del terreno che mi attendeva a metà del percorso.

Sbabam! Tutte le arance a terra e le ginocchia ammaccate. Ero un maldestro ragazzino in fuga dopo una marachella, altro che generale!

 

Sedetti in macchina al riparo e accesi il riscaldamento. Fuori faceva piuttosto freddo e aveva anche cominciato a piovigginare.

 

Dal momento che i finestrini bagnati  mi proteggevano dal ficcanasare dei passanti tirai un lungo e profondo sospiro e finalmente smisi di impegnarmi per mantenere un contegno.

 

Fu così che mi esplose addosso un temporale di singhiozzi e di emozioni, tutte ingrovigliate le une dentro alle altre in una matassa confusa e indistricabile. 

 

Ero terribilmente frustrata ed infastidita per come erano andate le cose. Soprattutto ero arrabbiata, ma verso di chi, mi domandavo?

 

Forse era colpa del tizio che mi aveva tagliato la strada o della receptionist che mi aveva indicato un orario sbagliato? Certo che, anche io avrei potuto controllare…perchè non lo avevo fatto? E poi questo maestro così antipatico?! Avrebbe anche potuto mostrarsi un po’ più accogliente! 

Intanto che i miei pensieri tuonavano scontrandosi tra loro in cerca di un colpevole, la pioggia di lacrime cominciò a svuotarli rendendoli meno pesanti. 

 

Man mano che davo spazio al mio sfogo notavo come divenisse meno importante trovare qualcuno verso cui dirigerlo.

 

Cominciai ad osservare il movimento di tutte quelle emozioni di passaggio dentro di me. Le guardavo andare su e giù come le gocce di pioggia: avevano un loro ritmo ed una loro forma, che forse non era necessario comprendere e che  probabilmente non dipendeva da nulla e nessuno di esterno a me.

 

Poco alla volta mi venne naturale smettere di trattenerle, ed in seguito cominciai anche a smettere di giudicarle. 

 

Osservai il mondo fuori dal finestrino, distorto dentro alla curvatura di ogni singola goccia appoggiata sul vetro. Pensai che forse erano semplicemente state la tensione e la mancanza di sonno ad avermi resa così suscettibile. 

Sentivo lo scrosciare della pioggia sul tetto dell’auto ed il ronzio ripetitivo della ventola del riscaldamento. Sentivo sempre di più la stanchezza pesarmi sugli occhi.

 

Decisi che era il caso di perdonarmi e andare avanti, che tutto sommato non era poi successo nulla di così grave.

Poi, mentre mi perdonavo, il turbamento si sciolse del tutto  lasciandomi cadere infine in quel sonno di cui avevo tanto bisogno. 

 

Quando le nubi nel cielo si diradarono fui dolcemente svegliata dalla luce del giorno che si era fatta più intensa. Scesi dall’auto a raccogliere le arance che mi avevano attesa quasi un’ora sull’asfalto.

 

La mia piccola ferita sul ginocchio si era già seccata. 

 

Era ora di tornare a casa a preparare qualcosa di speciale per pranzo: qualcosa di buono e caldo, che facesse bene al cuore.